di Frédéric Pascali - È James B. Donovan il nuovo eroe del cinema di Steven Spielberg. La sua ultima pellicola, tratta da una storia vera, porta sul grande schermo l’impresa di un avvocato della middle class newyorkese che,suo malgrado,divenne il protagonista di quella diplomazia sottotraccia che nel periodo della Guerra Fredda ebbe così spesso a operare. Girato con uno stile classico ed elegante, che non lascia adito a equivoci e sfumature, “Il ponte delle spie” si adagia lentamente nella retorica patriottica che nel finale raggiunge il suo apogeo.
Una mattina del 1957, nei pressi del ponte di Brooklyn, viene arrestato un pittore di nome Rudolf Abel. È accusato di essere una spia russa del Kgb e il processo che lo aspetta sembra essere una pura formalità per un verdetto di colpevolezza annunciato. Per salvare le apparenze si decide che l’imputato debba avere una difesa di rango e per questo viene chiamato James B. Donovan, avvocato bravo e famoso ma principalmente esperto del ramo assicurativo. Contrariamente a quello che tutti s’aspettano, la “formalità” viene presa molto sul serio da Donovan il quale si spinge fino alla Corte Suprema pur di affermare la forza del Diritto. Il suo assistito evita sia la sedia elettrica che l’ergastolo, un successo che attira su Donovan e la sua famiglia le ire di una parte dell’opinione pubblica. Quando qualche anno dopo il pilota di un aereo spia americano, un U-2, viene abbattuto e catturato dai russi tutto cambia e Donovan e il suo assistito si ritrovano a Berlino per uno scambio di prigionieri.
“Il ponte delle spie”, girato con la macchina da presa attenta a scandagliare umori, tragedie e cambiamenti di un’epoca tornata prepotentemente d’attualità, non riesce a “sporcarsi” fino in fondo e a perdere la patina di celluloide che ne separa l’essenza dalla realtà dei fatti. Tom Hanks, un “James B. Donovan” molto ben posato, i fratelli Coehn, qui in veste di sceneggiatori, e la fotografia di Janusz Kaminski fanno bene il loro lavoro ma la finzione non ne esce sconfitta.
Una mattina del 1957, nei pressi del ponte di Brooklyn, viene arrestato un pittore di nome Rudolf Abel. È accusato di essere una spia russa del Kgb e il processo che lo aspetta sembra essere una pura formalità per un verdetto di colpevolezza annunciato. Per salvare le apparenze si decide che l’imputato debba avere una difesa di rango e per questo viene chiamato James B. Donovan, avvocato bravo e famoso ma principalmente esperto del ramo assicurativo. Contrariamente a quello che tutti s’aspettano, la “formalità” viene presa molto sul serio da Donovan il quale si spinge fino alla Corte Suprema pur di affermare la forza del Diritto. Il suo assistito evita sia la sedia elettrica che l’ergastolo, un successo che attira su Donovan e la sua famiglia le ire di una parte dell’opinione pubblica. Quando qualche anno dopo il pilota di un aereo spia americano, un U-2, viene abbattuto e catturato dai russi tutto cambia e Donovan e il suo assistito si ritrovano a Berlino per uno scambio di prigionieri.
“Il ponte delle spie”, girato con la macchina da presa attenta a scandagliare umori, tragedie e cambiamenti di un’epoca tornata prepotentemente d’attualità, non riesce a “sporcarsi” fino in fondo e a perdere la patina di celluloide che ne separa l’essenza dalla realtà dei fatti. Tom Hanks, un “James B. Donovan” molto ben posato, i fratelli Coehn, qui in veste di sceneggiatori, e la fotografia di Janusz Kaminski fanno bene il loro lavoro ma la finzione non ne esce sconfitta.