Le “vite sbandate” dei briganti del Salento

di Francesco Greco - I meridionali non aspettavano i “liberatori” sulla porta di casa con i fiori di campo per un gentile omaggio. La storia scritta dai vincitori è parziale, densa di aneddoti e sociologia, propaganda e retorica unitaria. Quella vera un'altra. I Savoia boriosi hanno unito l'Italia. Forse era una necessità della Storia (le Due Sicilie dovevano essere ammodernate), ma la dinamica di quell'unità fu esclusiva e brutale, tanto che a 150 anni e rotti non è stata ancora metabolizzata, divenuta percezione comune, e forse mai lo sarà. Il Sud la declina come una colonizzazione.

Tanto per dire, l'input (e i denari) vennero da fuori: dagli inglesi, per esempio, che avevano enormi interessi nel Mediterraneo. Ci volle una repressione da pulizia etnica per “convincere” i meridionali. I Savoia spedirono 100mila uomini al comando del criminale generale Enrico Cialdini (che ha anche qualche via intitolata: orrore!). Interi paesi, dalla Terra di Lavoro alle Puglie e le Calabrie, furono formattati dalle mappe, passando per le armi donne, vecchi e bambini. Stermini di massa, da soluzione finale. I refrattari furono lasciati morire nel lager piemontese delle “Finestrelle” (una Dachau in anticipo). Sorvoliamo nauseati sull'orrore delle disgustose teorie di Lombroso, ovviamente adottate dai Savoia (Dio li fa poi si accoppiano da soli).

Il sogno unitario costò oltre un milione di vittime meridionali. “Non vi resteranno manco gli occhi per piangere”, dettò Cavour. Garibaldi era onesto: se ne pentì quasi subito e si isolò a Caprera. La propaganda unitaria non riuscì a convincere i contadini che la terra degli agrari sarebbe stata loro, e infatti restò ai gattopardi, lesti a saltare sul carro dei vincitori. Anche la Chiesa aveva intuito dove si sarebbe andati a parare. I vincitori rapinarono i denari del Banco di Napoli (il tesoro) per farsi le loro industrie in cui i meridionali poi sarebbero stati deportati. La Questione Meridionale si aggravò (e gravissima, esplosiva è tuttora). Dal Sud cominciarono esodi biblici, che durano ancora oggi.

Ci fu quindi una Resistenza, che durò dal 1860 al 1866 e che però gli storici di parte derubricano con sprezzo a lotta di bande. In realtà, più che fedeltà al giglio borbonico, fu un modo di affermare un'identità e un'appartenenza fiera e orgogliosa al Sud-Nazione, convinti che era meglio essere cittadini di una patria pur discussa ma amata, in cui almeno si aveva la dignità, che di un'altra in cui si sarebbe stati trattati da paria, senza diritti.

Gli storici dell'epoca cominciarono da subito a smascherare la favola unitaria, ma l'accusa di reazionari legittimisti li smontò ex abrupto. In questi ultimi anni i giovani storici hanno resto le fila di quel discorso per ricomporre il puzzle delle memoria. Così, la Resistenza del Sud Salento è ricostruita mirabilmente da Ivan Ferrari in “Vite sbandate” (Brigantaggio nel basso Salento 1860-1866), Edizioni Esperidi, Monteroni di Lecce 2015, pp. 373, euro 17, prefazione di Mario Spedicato (Università del Salento). Ex soldati borbonici allo sbando e contadini giovanissimi (alcuni erano nati nel 1843), ma anche renitenti alla leva, scesero in armi contro il potere costituito (la Guardia Nazionale) sul territorio.

Pochi, male armati, senza una strategia né ideologia, contando solo sul proprio coraggio e lo spontaneismo, la lotta armata si depotenziò da sola, condannandosi alla sconfitta. Ferrari recupera le cronache dell'epoca e ci restituisce i valorosi partigiani in tutta la loro dimensione umana e politica.

Personaggi come lo Sturno, Zucaro, Camarata, Mangiafarina, Melchiorre, divennero famosi, dei miti: si danno alla guerriglia protetti dalle popolazioni, i preti, qualche vescovo. C'erano anche molte donne. Peccato non ci abbiano lasciato nulla di scritto. Il fenomeno interessò tutto il Salento meridionale, versante jonico e adriatico: da Gagliano a Poggiardo, da Racale a Supersano, da Gallipoli a Nociglia e Presicce poi Galugnano, Andrano, Sternatia, Diso, Vignacastrisi, Marittima, Tuglie, Soleto, Villa Picciotti, Castrignano dei Greci, Scorrano, Zollino, Borgo S. Nicola, Alliste, Taviano, Casarano, Ugento, Cutrofiano, Vitigliano, Collepasso, Ortelle, Cerfignano, Spongano, Cocumola, Botrugno.

Il saggio ricostruisce sommosse popolari, scontri a fuoco, inseguimenti, sequestri, retate, rapine, assassinii, fucilazioni sommarie, arresti, processi e condanne in Corte d'Assise, tresche amorose, delazioni, l'eroismo di chi si immolò in quella che fu una guerra civile, una pulizia etnica. Fatti avvenuti in location tuttoggi riconoscibili (centri storici, masserie, piazze, chiese, municipi, vigneti, uliveti, palmenti, mulini, ecc.) da cui traspare la coscienza dei partigiani sui valori in campo, la convinzione che bisognava difendere la patria prima dell'assimilazione, altrimenti i posteri li avrebbero marchiati d'infamia. E che invece bisogna onorare, magari intitolando loro le nuove vie, sottraendole a quelle nominate a massacratori e teorici.

Un libro che bisogna far adottare dalle scuole affinché le nuove generazioni sappiano chi sono stati i loro antenati, il loro amor patrio, coraggio. Anche perché tutto è stato rimosso, ammantato di oblio, e non per caso e il revisionismo, dopo un secolo e mezzo, oltre che un fenomeno per salotti e accademie, è l'ulteriore sfregio a chi mostrò coraggio e anche lungimiranza e morì per la sua patria.

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