di FREDERIC PASCALI - Quando ci si interroga sul modus operandi di un regista come Tarantino non si può fare a meno di pensare che nelle sue opere la banalità sia un convitato che a tavola non si siede mai. Altresì il gusto per l’ironia, per il grottesco, per la parodia, non sembra fargli difetto e in “Hateful Eight” si spinge fino ai margini dell’eccesso. I dialoghi dei suoi personaggi, costantemente sulla corda di una tensione latente ma foriera di oscuri e violenti presagi, ne sono la testimonianza più concreta.
Il maggiore dell’esercito nordista Marquis Warren, appiedato nel bel mezzo di una tempesta di neve, chiede un passaggio a una diligenza, guidata dal cocchiere O.B., che ha come passeggeri il cacciatore di taglie John Ruth, detto “Il Boia”, e la sua prigioniera, l’assassina Daisy Domergue. Strada facendo ai tre si aggiunge Chris Mannix, nuovo sceriffo di Red Rock e discendente di una nota famiglia di taglia gole sudista. Prima del calare della notte i quattro giungono all’emporio di Minnie. Ad attenderli non vi è la proprietaria e né il consueto personale. Ci sono un vecchio generale sudista, Sanford Smithers, un cowboy di nome Joe Gage, un boia cittadino, Oswaldo Mobray, e un messicano di nome Bob che afferma di occuparsi momentaneamente del locale. È il preambolo di una lunga e dolorosa notte.
Le quasi 3 ore di “The Hateful eight” sono una specie di “valigia dei trucchi” che Tarantino apre e sciorina per i suoi fan, divertendosi a giocare con loro fino all’estremo. L’effetto complessivo non rientra nell’eccellenza, ondeggiando costantemente tra citazioni del passato e infiniti risvolti di sceneggiatura conditi da narrazioni sempre in bilico tra l’ossessivo e il sadico. Alla “cerimonia” del regista americano si prestano mostri sacri come Samuel L. Jackson, “Maggiore Warren”, Kurt Russell, “John Ruth”, e una straordinaria Jennifer Jason Leigh, “Daisy Domergue”. Da consegnare ai posteri le musiche di Ennio Morricone che trionfano nella notte degli Oscar e regalano la seconda statuetta al Maestro italiano (la precedente gli era stata assegnata alla carriera).
Il maggiore dell’esercito nordista Marquis Warren, appiedato nel bel mezzo di una tempesta di neve, chiede un passaggio a una diligenza, guidata dal cocchiere O.B., che ha come passeggeri il cacciatore di taglie John Ruth, detto “Il Boia”, e la sua prigioniera, l’assassina Daisy Domergue. Strada facendo ai tre si aggiunge Chris Mannix, nuovo sceriffo di Red Rock e discendente di una nota famiglia di taglia gole sudista. Prima del calare della notte i quattro giungono all’emporio di Minnie. Ad attenderli non vi è la proprietaria e né il consueto personale. Ci sono un vecchio generale sudista, Sanford Smithers, un cowboy di nome Joe Gage, un boia cittadino, Oswaldo Mobray, e un messicano di nome Bob che afferma di occuparsi momentaneamente del locale. È il preambolo di una lunga e dolorosa notte.
Le quasi 3 ore di “The Hateful eight” sono una specie di “valigia dei trucchi” che Tarantino apre e sciorina per i suoi fan, divertendosi a giocare con loro fino all’estremo. L’effetto complessivo non rientra nell’eccellenza, ondeggiando costantemente tra citazioni del passato e infiniti risvolti di sceneggiatura conditi da narrazioni sempre in bilico tra l’ossessivo e il sadico. Alla “cerimonia” del regista americano si prestano mostri sacri come Samuel L. Jackson, “Maggiore Warren”, Kurt Russell, “John Ruth”, e una straordinaria Jennifer Jason Leigh, “Daisy Domergue”. Da consegnare ai posteri le musiche di Ennio Morricone che trionfano nella notte degli Oscar e regalano la seconda statuetta al Maestro italiano (la precedente gli era stata assegnata alla carriera).