“Caro Michele”, chiaroscuri e tragedie del '900

di FRANCESCO GRECO - La voce, tutto è nella voce. E' stata la lezione di Carmelo Bene svelato all'Italia dal filosofo francese Jacques Derrida. Fatta propria anche – magari inconsciamente - da Nanni Moretti quando si è accostato a un classico del Novecento italiano, “Caro Michele”, di Natalia Ginzburg, di cui quest'anno ricorre il centenario dalla nascita (1916-1991).

Un classico del “secolo breve” opportunamente riproposto da Emons Italia audiolibri (anche per non vedenti e ipovedenti), Roma, 2016, collana “Classici”, durata complessiva 5 ore, euro 15.90, progetto grafico di Leonardo Magrelli, mentre la sigla Emons, “Regina Solianu”, è composta ed eseguita da Alessandro Parente, registrazione, la regia è di Valia Santella, montaggio Andrea Giuseppini, studio di registrazione 24 Gradi (Roma), voce narrante del regista, attore, sceneggiatore, produttore (Sacher) romano Nanni Moretti (“Ecce Bombo”, 1978, “Bianca“, 1984, “La messa è finita”, 1985, “Il Caimano”, 2006, ecc.). Per la stessa casa editrice aveva già letto “Sillabari”, di Goffredo Parise.

E dunque, sotto forma epistolare – tecnica narrativa adeguata perché obbliga alla sintesi – Moretti ci conduce per mano nei labirinti oscuri di una saga di famiglia borghese, un universo sfatto, atomizzato, claustrofobico, dove la percezione del tempo è sfuggente, l'identità vaga e lacerata, tra velleitarismi esistenziali, fallimenti e progetti per il futuro che stanno attaccati con la saliva.

Se la scrittrice intendeva dare al suo canovaccio un valore simbolico, far intravedere una complessità escatologica, la bozza di un archetipo della famiglia dell'altro secolo, che si sta sgretolando impalpabilmente, perdendo la sua anima antica e con essa il ruolo storico, senza un orizzonte preciso dove muovere, ha colto nel segno, ed è anche lì la sua forza espressionista. Quindi il romanzo ha anche una password sottintesa di documento: storico, sociologico, antropologico, psicologico, psicanalitico (“E' raro riconoscere i momenti felici mentre li stiamo vivendo...”).

Da quelle macerie ingombranti nascono oggi nuovi postulati di vita, di convivenza, di famiglia, di coppie di fatto, di maternità surrogate, di solipsismo e ipertrofia dell'io. Se sia stato un divenire dettato da progresso e civiltà, o piuttosto un'involuzione, una deriva, ognuno lo decida da sé, a seconda della formazione culturale e la sensibilità.

Lo stesso Michele, il protagonista che fugge in Inghilterra quando si annunciano i primi vagiti degli anni di piombo, sposa una divorziata con due figli, comunista, mentre lui dichiara di non esserlo, proprio quando il Pci sta per vivere il suo boom storico (1976), che sboccherà, con Moro nel 1978, nel “compromesso storico”.

Qui, mantenendosi lavando i piatti e accudendo caldaie, mentre aspetta i “Parapolimeni” di Kant, apprende della morte del padre, un pittore oscuro, uno come tanti (dipingeva gufi e biancheria sporca), che lo aveva svezzato affollandolo semanticamente di infinite aspettative. Fatto che rafforza il suo rapporto edipico con la madre, confinata in una casa di campagna che detesta, a rielaborare il passato, anche sentimentale.

Michele forse è il padre del bambino di Mara, o forse no. La sua identità sessuale è ambigua: forse è omosessuale, o forse “ambidestro”. E' il tema dei discorsi delle sorelle. Comunque sia, la ragazza (proletaria) si rivela una piccolo borghese che cerca, e trova, una sistemazione con “il pellicano”, editore aps (Umberto Eco), ma scappa dai parenti a Novi Ligure, col visone e il bambino...

Emerge un mondo decadente, disarticolato, giunto a uno snodo storico, al confine del suo sfacelo. La voce di Moretti fa percepire i chiaroscuri della tragedia: l'agonia, il riflusso, la chiusura, l'interiorizzarsi di persone malate dentro. La resa. Senza più valori da condividere, un minimo di spiritualità, uno straccio di estetica: un puzzle destrutturato, senza più collante, che va in frantumi (quasi una citazione del mondo al tramonto nel “Gattopardo” di Tomasi di Lampedusa-Visconti).

Ed è poi quello privo di luce e di bellezza, volgare e crepuscolare in cui siamo costretti, anche a causa del nostro rifugio nel privato che ha fatto emergere sciacalli perfettamente intercambiabili dotati di favella retorica: i nostri brutali aguzzini.

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