di FREDERIC PASCALI - Non un capolavoro ma un esperimento dotato di una indubbia capacità di persuasione. Il nuovo supereroe italiano reclama uno spazio tutto suo e guidato dalla regia acuta e “fumettara” di Gabriele Mainetti, autore delle musiche insieme a Michele Braga, lo guadagna senza troppi patemi. Il “Jeeg Robot”, manga giapponese che ha appassionato tanti ragazzi italiani degli anni ’80, diventa l’originale espediente letterario per una seconda chance che la vita non sempre distribuisce.
Enzo Ceccotti è uno spiantato della periferia romana. Vive a Tor Bella Monaca, tra piccoli espedienti e sporadici furtarelli. Un giorno, mentre Roma è attraversata da esplosioni di attentati non ben definiti, dopo aver rubato un orologio, per evitare la cattura da parte della Polizia finisce dentro il Tevere. Proprio sotto una vecchia chiatta abbandonata. Inavvertitamente sbatte contro un bidone contenente materiale radioattivo. Tornato a casa è preda di dolori e febbre alta ma l’indomani mattina il risveglio è tranquillo e tutto in lui sembra essere tornato come prima.
“Lo chiamavano Jeeg Robot” ricorda molto un ibrido che andava tanto di moda ai tempi degli spaghetti western. Una riuscita operazione di indigenizzazione di un prodotto d’esportazione. I temi supereroistici delle Majors americane si fondono con le asperità del poliziesco italiano. Ne viene fuori una narrazione che riguadagna in originalità e sfuma un po’ i toni grotteschi che lo “Zingaro”/ “Joker” e la “Roma”/”Gotham City de noialtri” evocano senza soluzione di continuità .
Le riprese si adeguano a questo schema, così come gli effetti speciali, inerpicandosi efficacemente verso un sentiero dove l’illusione deve essere forzatamente il più vicino possibile alla realtà .
Gli interpreti principali,Claudio Santamaria/”Ceccotti”, Luca Marinelli/”Zingaro”, Ilenia Pastorelli/”Alessia”, forniscono un’alchimia che, sorretta dalla giusta tensione e dalla fotografia di Michele D’Attanasio, funziona fino in fondo.
“Lo chiamavano Jeeg Robot” si avvia ad essere il film rivelazione dell’anno e per il momento conquista 16 nomination ai David di Donatello.
Enzo Ceccotti è uno spiantato della periferia romana. Vive a Tor Bella Monaca, tra piccoli espedienti e sporadici furtarelli. Un giorno, mentre Roma è attraversata da esplosioni di attentati non ben definiti, dopo aver rubato un orologio, per evitare la cattura da parte della Polizia finisce dentro il Tevere. Proprio sotto una vecchia chiatta abbandonata. Inavvertitamente sbatte contro un bidone contenente materiale radioattivo. Tornato a casa è preda di dolori e febbre alta ma l’indomani mattina il risveglio è tranquillo e tutto in lui sembra essere tornato come prima.
“Lo chiamavano Jeeg Robot” ricorda molto un ibrido che andava tanto di moda ai tempi degli spaghetti western. Una riuscita operazione di indigenizzazione di un prodotto d’esportazione. I temi supereroistici delle Majors americane si fondono con le asperità del poliziesco italiano. Ne viene fuori una narrazione che riguadagna in originalità e sfuma un po’ i toni grotteschi che lo “Zingaro”/ “Joker” e la “Roma”/”Gotham City de noialtri” evocano senza soluzione di continuità .
Le riprese si adeguano a questo schema, così come gli effetti speciali, inerpicandosi efficacemente verso un sentiero dove l’illusione deve essere forzatamente il più vicino possibile alla realtà .
Gli interpreti principali,Claudio Santamaria/”Ceccotti”, Luca Marinelli/”Zingaro”, Ilenia Pastorelli/”Alessia”, forniscono un’alchimia che, sorretta dalla giusta tensione e dalla fotografia di Michele D’Attanasio, funziona fino in fondo.
“Lo chiamavano Jeeg Robot” si avvia ad essere il film rivelazione dell’anno e per il momento conquista 16 nomination ai David di Donatello.