Quando la vita era “ndoru te rumatu” e “na tirata te vinu”

di FRANCESCO GRECO - Diciamolo: la nostalgia è un sentimento rischioso e per ceti aspetti retorico. Addolcisce ciò che è aspro, relativizza la sofferenza. Il Novecento contadino che ci siam lasciati alle spalle, e che tuttavia sopravvive nel nostro cuore e nel dna, è un tempo troppo complesso per essere semplificato. Nutrire rimpianti è ermeneuticamente sbagliato: la fatica era tanta, la paga poca, se c'era. La terra era di pochi, i poveri avevano solo quella delle loro unghie, padroni delle loro ossa. Sfruttamento bestiale. Le malattie e la povertà senza confini una selezione naturale. La vita media bassissima: a 40 anni i nostri avi erano giù vecchi, curvati dalla zappa. Raccontare queste cose serve a poco: solo chi ha vissuto quel tempo sa che la memoria è dolore: ferite che mai si rimarginano.

Ma sbagliato è anche dimenticare il passato, potremmo essere condannati a riviverlo ora che, a prezzo di sacrifici inimmaginabili (l'emigrazione ha frantumato l'anima dei nostri paesi), ci siamo dati un po' di libertà (“zzappare nunbuse chiui la terra”), di benessere e un tozzo di pane possiamo portarlo a tavola, fatto che ci ha dato anche tanta dignità, ma che, corsi e ricorsi, tutto ciò sta per svanire e la povertà è tornata.
Eppure, a disagio nella modernità, frastornati dalla solitudine, l'egoismo, la violenza, la volgarità, la bruttezza (ispide patologie), cerchiamo un appiglio proprio in quel passato, che aveva le sue spine, ma anche le rose. La socialità fra la gente, la genuinità dei sentimenti, la solidarietà, il poco spartito mille volte.

Quel passato è l'argilla morbida con cui il poeta pugliese Antonio Manco (classe 1940, Matino, sud Salento, un passato di emigrato che emerge nelle liriche) impasta i suoi versi in “Poiesis e Poesie”, autoedizione, pp. 44, s.i.p. Il titolo della silloge non è per caso: significa che Manco attinge al cuore antico della sua terra misteriosa e barocca, il Salento (“monte naturale chinu te scrasce” dove “Mai acqua t'amore chiove susu sta terra”), lande assetate (“Arsura”), ma con un occhio e i piedi ben dentro la contemporaneità.

Un doppio livello che gli consente di frugare nella quotidianità e le mille facce del mondo rurale, che lo ha plasmato nei suoi valori fondanti, non relativizzati, nell'etica, ma con la ragione nel XXI secolo. Così la sua voce limpida e naif si alza alta per frugare nelle pieghe di quel mondo, nella sua anima antica e profonda, la sua energia. Dandoci versi di impronta minimalista, che con l'innocenza e l'incanto del fanciullino pascoliano, illuminano quella quotidianità: piccole gioie e grandi dolori (“Quannu nascei ieu fui sfortunatu”, “te leone ca era me ficiara pecureddha”), i sentimenti, la famiglia (la moglie Antonia, i figli Giorgio e Marta), i compagni d'infanzia, il desiderio impetuoso (“pe picca ca no te caruttai la conna”, “acqua tuce cercamu cu me stuta sta ucca arsa”), la memoria (“Te ricordi quannu sciene allu messi?”), il tempo che passa (“muierama nu me face mancu lu ndoru”), la coscienza della vita che si sbriciola e fugge via lasciando aspri rimpianti e amari disincanti (“Me poi tire ca no criu chiui a nenti”, “Fiju ngratu”) ma anche il retrogusto agrodolce di aver assaporato il suo nettare più segreto.

Manco incarna oggi una delle voci più autentiche della poesia dialettale pugliese, perché riesce a cogliere con versi rapidi e densi, il mistero di una terra (“tra ndoru te rumatu... e na tirata te vinu”) e in fondo anche della vita (“La libertà è lu meiu fiuru”), anche se “stu core patutu ha uta picca pace” e “a casa maggiu riccotu vecchiu e ribusciatu”.

Posta un commento

Nuova Vecchia

Modulo di contatto