di LIVALCA - Davide Rampello, docente universitario e famoso regista televisivo, direbbe, con l’enfasi con cui ci ha somministrato in questi anni i suoi itinerari turistici nell’Italia minore, ma senz’altro migliore: ‘Venite a ‘Villa Lucia’ in Conversano non come ‘pazienti’, ma come ospiti’.
Cercherò sull’onda di situazioni e sensazioni di descrivervi quello che mi è capitato dal 16 febbraio in poi, ossia da quando esami approfonditi, trascurati con negligenza non perdonabile, avevano evidenziato nel mio corpo la presenza di un intruso che andava celermente asportato.Nonostante la logica dica che nella vita quello che bisogna sempre prevedere è l’imprevisto, saputo che nella struttura pubblica erano necessari minimo due mesi di attesa, sono andato nel panico.
Un amico sotto forma di un angelo, non ci vedevamo da mezzo secolo, occasionale e ben informato mi ha parlato di questa struttura accreditata come partner del Sistema Sanitario Nazionale. Vinta la mia blanda diffidenza perché mi sentivo comunque con l’acqua alla gola, si è informato se fossero specializzati per la mia patologia. Alla risposta affermativa mi sono convinto che Conversano per me è sempre un’ancora di salvezza fin da quando Oronzo Marangelli, il primo direttore e fondatore di Telenorba, mi volle con lui per la sua avventura giornalistica denominata ‘La Voce del Mezzogiorno’. Da non trascurare il ‘beneplacito’ di Angelo Ramunni, nota figura di medico che di Conversano conosce ogni pietra o pietruzza, che con la consueta imparziale, spassionata amicizia mi ha sussurrato: ‘Vai tranquillo Gianni’.
Sono stato convocato per lunedì 22 febbraio alle ore 08.00, ma, avendo la fortuna di considerare la notte un optional, alle 07.00 ero già sul posto. Accoglienza gentile, perfetta per grazia e bellezza, e dopo aver controllato i documenti mi è stato dato un numerino.
Intorno alle 7,40 una leggiadra signora, con un sorriso scolpito nel marmo michelangiolesco, ha chiamato il mio numero e mi ha invitato a sedermi su una poltrona - ottima idea quella della poltrona! – per il prelievo del sangue. Da sempre questa semplice operazione per me costituisce un problema per via di vene poco visibili e, quindi, sono sempre in agitazione. Mi è mancato il coraggio di dire alla signora che è difficile trovare le mie vene ed ho optato per il silenzio dei giusti o dei vinti, secondo l’interpretazione del momento.
Ho sentito sciogliere il laccio, segnale che l’operazione era andata in porto, e mi sono sentito di esternare all’operatrice la mia ammirazione per la sua bravura. La risposta è stata di un candore disarmante: ‘Ha fatto bene a non parlarmi prima del suo problema, perché in effetti ho avuto qualche difficoltà all’inizio per trovare la vena’. Per me questa è stata la prima lezione mattutina: si può essere bravissimi e ammettere che non è stato facile. La giornata è andata avanti scandita dalla gentilezza di tutti coloro che si sono avvicendati per le visite di routine e mi sono imbattuto in un cardiologo che per simpatia e professionalità mi ha ricordato che il cuore nei suoi slanci emotivi, a dispetto della ragione, dice sempre troppo.
Non so come e perché ci siamo trovati a parlare del liceo Orazio Flacco, frequentato negli stessi anni in sezioni diverse, e della vita in genere. Il cardiologo Giuseppe Cellamare con la sua ironia contagiosa, ma sempre professionale, mi ha fatto capire che qualcuno aveva deciso di vegliare su di me.
Per la visita toracica sono sceso giù con una paziente che aveva sul volto i segni evidenti di quello che stava combattendo. Una persona dolcissima, non ci siamo presentati, ma con poche semplici e precise parole mi ha fatto capire che dovevo spogliarmi di qualsiasi pregiudizio, forse anche arroganza, ed accettare umilmente il responso, qualunque esso fosse stato. Lo ha detto con una fermezza che non era rassegnazione, ma accettazione di un qualcosa che non dipende da noi. Di questa splendida magnifica donna ho la foto immagazzinata nella mia memoria: dopo lustri è tornato a funzionare il mio mitico elefantiaco ricordo. La notizia che mi ha fatto capire che si può essere fortunati senza essere felici, mi è stata data dal dr. Chiaradia - un giovane brillante, consapevole di essere un primo della classe, con l’incommensurabile vantaggio di amare in maniera smisurata la professione scelta e su cui la medicina potrà contare in avvenire - che, nello spiegarmi il tipo di intervento che dovevo subire, mi ha dato la notizia che sarebbe stato un luminare, il prof. Selvaggi, ad operare. Ho pensato subito che Foscolo si è sbagliato quando ci ha regalato la famosa frase: ‘Nella vita uno ha quello che si merita: la fortuna non esiste’. Carissimo Ugo per me oggi esiste, anzi si chiama Francesco Selvaggi.
Conosco il prof. Francesco Paolo Selvaggi fin da quando accompagnavo mio padre presso ‘Villa del Sole’, perché il prof. Giuseppe Marinaccio curava una ferita di guerra di mio padre. L’amicizia che mio padre aveva con lo scienziato prematuramente scomparso era ferrea: per un lavoro facevamo anche 15 volte le bozze e mio padre non aveva mai niente da ridire. Una volta a casa del prof. Marinaccio, in via Bozzi, mi permisi di dire: ‘Professore posso riscontrare io le bozze’. Non rispose, ma mi fece un sorriso che era più eloquente di qualsiasi parola. Poi in azienda gli anziani mi spiegarono che il professore anche per una virgola doveva controllare personalmente. Sono stato operato dal prof. Vincenzo Oliva, dal prof. Rosario Polizzi, mi mancava il luminare Selvaggi. Poi per uno strano segno del destino sono amico della poetessa, scrittrice, professoressa Santa Fizzarotti, deliziosa sposa del prof. Selvaggi.
Mentre mi accompagnavano nella mia stanza ho sentito una voce calda, suadente, sincera dire ‘in bocca al lupo’, mi sono girato e ho rivisto la splendida signora, di cui avevo immagazzinato il volto, che mi salutava. Ho capito che il lupo con me doveva crepare per forza e la stessa cosa farà con la signora che con le armi della scienza sta combattendo la sua civilissima personale battaglia.
In stanza ho trovato un anziano di 84 anni, burbero, grintoso, con otto figli e diciotto nipoti, che subito mi ha detto che era vivo grazie al prof. Selvaggi e poi ha messo a dura prova la pazienza dei medici con richieste forse esagerate. Nonostante ciò anche il personale infermieristico ha dimostrato pazienza, disponibilità, comprensione, tolleranza, intelligenza e umana indulgenza.
L’equipe del professor Selvaggi è composta dai dottori Chiaradia, Galeone, Giangrande e altri di cui non conosco i nomi.
La medicina, al pari della musica, è l’anello di congiunzione tra la vita fisica e la vita spirituale (Amico lettore fai galoppare la fantasia!).
Sul palco di Sanremo il musicista Ezio Bosso ha terminato il suo intervento musicale invitando il pubblico a lavorare, creare, agire: ‘INSIEME’.
A ‘Villa Lucia’, facente parte del gruppo GVM, l’armonia regna sovrana. Partendo dalla massima per cui solo chi non ha più curiosità di apprendere può considerarsi anziano vi è un connubio fra l’esperienza maturata nella pratica quotidiana per intere generazioni da coloro avanti negli anni e i giovani che, invece di attendere la manna, sono felici di imparare, capire ed essere guidati e ‘sgridati’.
Certo uno si chiede perché il servizio pubblico si privi della capacità professionale di gente nel pieno delle proprie funzioni e non trovi una soluzione equa che non disperda energie vitali per la nostra sanità, ma dare una risposta logica a ciò al momento non è nelle mie corde.
Il prof. Francesco Selvaggi, dopo ore di sala operatoria, passa a visitare i suoi pazienti e, solo dopo questa incombenza che lo rende ‘felice’, si avvia appagato verso casa. Questi sono gli uomini che hanno fatto grande il nostro Paese, questi sono gli uomini che continuano a mantenerlo fra le grandi potenze.
Personalmente conosco solo due specie di uomini: quelli che lavorano e pensano e quelli che pensano e lavorano. Non conosco gente che si annoia.
Forse non tutti sanno che la nota canzone ‘Solo per te Lucia’ ha per titolo ‘La canzone dell’amore’, firmata dalla coppia Cherubini-Bixio. Perché dico questo? A ‘Villa Lucia’ l’amore regna sovrano, quell’amore che si nutre dell’essere se stessi insieme con l’altro.