Raffaele Sollecito all’UniBa: “la mia tragedia lunga 8 anni”


di PIERPAOLO DE NATALE - Grande successo per l'evento organizzato presso l'Università degli Studi di Bari dai ragazzi di Azione Universitaria. In una gremita aula VII del Dipartimento di Giurisprudenza si è tenuto l'incontro dal titolo Il caso Meredith e il processo mediatico. All'evento hanno partecipato il prof. Nicola Triggiani (docente di Diritto processuale penale), il dott. Massimiliano Scagliarini (giornalista della Gazzetta del Mezzogiorno) e Raffaele Sollecito, ospite più atteso, a seguito del diretto coinvolgimento nell'omicidio che ha diviso l'Italia.
Al centro del dibattito vi è stato un grande argomento. Ci si è chiesti se sia possibile che un soggetto possa subire una condanna mediatica prima ancora di essere dichiarato colpevole al termine di un processo. Nel tentativo di trovare una risposta al quesito, la discussione è stata aperta dal prof. Triggiani, che ha illustrato il rapporto tra processo giudiziario e processo mediatico, evidenziandone sia le differenze macroscopiche che quelle meno evidenti, ma - come riferito - molto più importanti.

L'intervento del professore è stato seguito da un collegamento telefonico con Paolo Liguori, direttore di TGCOM24, recentemente al centro dell'attenzione per aver invitato Sollecito a commentare fatti di cronaca nera e cronaca giudiziaria nel salotto della sua trasmissione televisiva. Subito dopo è stata la volta di Scagliarini, il quale ha posto sotto la lente d'ingrandimento numerosi stralci giornalistici, mostrando il cruciale ruolo della cronaca in ambito giudiziario.

Infine, mentre in aula calava il silenzio del pubblico (in stragrande maggioranza composto da studenti), è intervenuto Raffaele Sollecito. Letteralmente accerchiato dalla stampa, Sollecito ha raccontato la propria esperienza, facendo comprendere la netta distinzione tra media e realtà. "Ricordo bene i primi giorni delle indagini. Fu ritrovato il corpo di una studentessa inglese, Meredith Kercher, e i più vicini al luogo del delitto eravamo io e Amanda Knox. Questa vicinanza ha fatto partire le indagini a senso unico, scordandosi che quell'impronta di mano insanguinata rinvenuta affianco alla vittima portava la firma di Rudy Guede. Nessuno ebbe la voglia di aspettare i risultati delle analisi della scientifica e si puntò subito il dito contro di noi, che eravamo i più vicini al luogo del delitto". Così Raffaele Sollecito ha iniziato a raccontare ai presenti l'inizio del proprio travaglio giudiziario.


"Questa fretta portò ad una conferenza stampa a pochissimi giorni dall'inizio delle indagini, in cui fu detto 'abbiamo i colpevoli e sono: Amanda Knox, Patrick Lumumba e Raffaele Sollecito'. Tre persone assolutamente innocenti, che non c'entravano nulla con l'omicidio e inesistenti sulla scena del crimine. Da quella data ci sono stati una serie di dietrofront e sotterfugi, ho vissuto 8 anni di processi, 5 processi, 6 mesi di isolamento, 3 anni e mezzo di carcere di massima sicurezza". "I media - prosegue Sollecito - quando nessuno mi conosceva, mi hanno preso di mira, descrivendomi come una persona fredda e decontestualizzando una serie di fatti. Ho subito svenimenti e attacchi di panico. Ho avuto problemi alla tiroide che accuso ancora oggi: tutto causato dal vedermi costantemente al centro dei dibattiti televisivi. Assistevo a trasmissioni in cui si parlava di cose futili, dal colore della maglietta agli sguardi fra me e Amanda. Questo atteggiamento ha fomentato tutti contro la mia persona, disancorando la mia personalità dalla realtà, costruendo un personaggio inesistente e tutto sulla base di informazioni totalmente nulle. La gente non sa niente del processo e molti non sanno neanche il motivo per cui io sia stato assolto. Ciò accade perchè di solito i giornalisti raccontano i fatti che creano sensazionalismo ed emozione, ma senza analizzare la realtà del processo e delle indagini. [...] Le circostanze hanno superato qualsiasi più torbida immaginazione, provocando una serie di fraintendimenti che hanno originato una tragedia durata ben 8 anni. Troppi, se penso che le risultanze probatorie che hanno portato alla mia assoluzione si conoscevano già dopo i primi sei mesi di indagine".

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