di FRANCESCO GRECO — Avete mai sentito parlare del gruppo rock Mefisto? Conosciuto gli Juventus? Ascoltato i Concorde e i Club Stodola? Non vi diremo niente di loro, così andrete a sfrucugliare sul web e se qualche file è sopravvissuto (oltre a formazioni e incisioni) potrete scoprirli e ascoltarli per conto vostro.
Però, che critici musicali raffinati e colti furono i burocrati comunisti dell'Est europeo nel Novecento, guerra fredda, cortina di ferro, blocchi ideologici e muri mentali. Più bravi di Riccardo Bertoncelli e Victor Alfieri. Capirono quel che c'era da capire, e cioè che il rock, nelle sue infinite scansioni e letture, era destrutturante, rivoluzionario. I riflessi sull'immaginario collettivo giovanile imprevedibili. Puro veleno direbbe Tex Willer.
Critici occhiuti in società cristallizzate, capaci di leggere nei testi, censurarli, tener lontani i gruppi stranieri e ai margini quelli indigeni, derubricandoli a fenomeni minori, spogliandoli della loro carica politica e semantica. Fans di Tony Astarita e Nicola Di Bari, dei neomelodici e dei retorici: non erano così sciocchi da non capire che se avessero dato spazio alla cultura giovanile, ai raduni rockc e alle folle oceaniche i loro regimi ansimanti, retti da repressione e delazione strutturali sarebbero crollati un po' prima del 1989 (Muro di Berlino) e la Guerra Fredda forse sarebbe durata meno. Syd Barrett e Robert Plant avrebbe affrettato la fine di un mondo sfatto e incolore, che qualche nostalgico oggi rimpiange.
Se i ragazzi di Mosca al tempo di Breznev e di Varsavia sotto Jaruzelski avessero avuto la loro Woodstock o l'Isola di Wright, il '68, vietato vietare e l'immaginazione al potere, qualche evento rock con la voce rasposa di Joe Cocker (“Whit help from my friends”) e i voli pindarici di Keith Emerson, Jimi Hendrix e Bob Dylan, la storia magari avrebbe intrapreso altre ellissi. Noi avremmo conosciuto gli Impuls e i Neoton e i ragazzi di Bucarest o Sofia i Genesis, i Pink Floyd, gli Stones, i Doors, Frank Zappa (invece del ballo del qua qua e altro rubbish per gente lesionata che esiste solo per l'anagrafe).
Ma la casta – come tutte le caste – protesse se stessa e il rock fu letto per quel che era: un linguaggio universale, planetario, un elemento devastante per gli equilibri politici immobili, che avrebbe portato i ragazzi dell'Est (URSS, Cecoslovacchia, Ungheria, Romania, Repubblica Democratica di Germania, Bulgaria, Polonia) ad assumere atteggiamenti politico-estetici scorrect, supportato protagonismi sociali distanti anni-luce dall'etica comunista grigia, mettendola ontologicamente in crisi e facendola crollare su se stessa ormai priva di linfa vitale, humus.
Alessandro Pomponi ricostruisce 15 anni della loro (e nostra) storia in “Rock oltre Cortina” (Beat, Prog, Psichedelia e altro nei paesi del Blocco Comunista 1963-1978), Tsunami Edizioni, Milano 2016, pp. 400, euro 22, collana “Le tempeste”. Mettendo insieme, con ricchezza di materiali, una sorta di zibaldone esaustivo che, per quel che se ne sa, mancava alla storiografia della musica del XX secolo, e quindi riempie un vuoto sia come informazione ma anche nell'analisi dei fenomeni giovanili passati.
Ogni contaminazione fu impedita, lo scambio di immaginari inibito. La censura fu totale: la mannaia calò su dischi, testi, perfino cover e preoccupati dei loro benefit i burocrati arrivarono a sciogliere i loro gruppi. Il boicottaggio si sviluppò su due livelli: i gruppi rock che nascevano in quegli anni oltre la cortina di ferro, ostacolati e confinati nei ristretti confini di un universo, l'Est, culturalmente ed emozionalmente vivo cui fu negata la possibilità di farsi conoscere extra moenia (se uscivano qualche musicista non tornava più) e i concerti delle band occidentali derubricati a folklore, fenomeni senza alcuna implicazione, virtuosismi narcisisti.
Cosa potevano farci a Bucarest Jim Morrison, Mick Jagger a Budapest, Eric Clapton a Minsk? Già i capelli lunghi, le borchie e l'erba sempre pronta erano sospetti, decadenti, politically scorrect. Come la loro stessa biografia, la trasgressione, la promiscuità . Impoverendone l'etimo, il denso grumo semantico, i burocrati depotenziarono i messaggi del rock e dintorni, palesi e subliminali: gerovital con cui tirarono a campare fino all'89.
Curiosa la storia della cecoslovacca Marta Kubisova (bella come Janis Joplin, tra i primi a firmare Charta 77): dal 1970 al 1977 dovette dedicarsi alla famiglia, al focolare domestico. La misero a tacere con una montatura da servizi segreti: foto oscene. Nel 1971 un giudice (ce n'era uno anche a Berlino est) le dette ragione, ma il boicottaggio non cessò. Il regime aveva paura della sua voce, delle parole e la soffocò. Viene in mente la frase di Einstein sulla stupidità più profonda dell'oceano.
Ma Husak e Ceaucescu han rubato qualcosa anche a noi. La nostra giovinezza è passata senza aver conosciuto i Fortuna, gli Iris, i Lift, i Domino, i No To Co e i Republika. Ci sono mancati i Metropol, i Blue Effect, gli hot-pants di Mira Kubisanska. Sul nostro scaffale, molti buchi neri: per dire, manca l'lp (doppio) “Timisoara”. La nostra vita sarebbe stata diversa, più ricco e contaminato il nostro immaginario se a 15 anni, oltre ai Deep Purple, i Black Sabbath e gli Yes avessimo ascoltato gli Olympic e messo sul piatto dei nostri stereo un lp degli Omega con la voce mostosa di Koncs Zsuzsa (bella come Joan Beaz): costretti a cantare in un film per aggirare la stupidità della censura.
Ha ragione Bertrand Russell: i dogmatismi, tutti, ci rubano l'anima e ci impoveriscono ormai da secoli. La tragedia è che si passa da uno all'altro (politico o religioso) e non se ne intravede il tramonto. A chi interessa: Pomponi è romano, è del 68 e magari s'è fatto le ossa ai concerti del primo maggio e del Circo Massimo. Però, grandi i Flamengo!
Però, che critici musicali raffinati e colti furono i burocrati comunisti dell'Est europeo nel Novecento, guerra fredda, cortina di ferro, blocchi ideologici e muri mentali. Più bravi di Riccardo Bertoncelli e Victor Alfieri. Capirono quel che c'era da capire, e cioè che il rock, nelle sue infinite scansioni e letture, era destrutturante, rivoluzionario. I riflessi sull'immaginario collettivo giovanile imprevedibili. Puro veleno direbbe Tex Willer.
Critici occhiuti in società cristallizzate, capaci di leggere nei testi, censurarli, tener lontani i gruppi stranieri e ai margini quelli indigeni, derubricandoli a fenomeni minori, spogliandoli della loro carica politica e semantica. Fans di Tony Astarita e Nicola Di Bari, dei neomelodici e dei retorici: non erano così sciocchi da non capire che se avessero dato spazio alla cultura giovanile, ai raduni rockc e alle folle oceaniche i loro regimi ansimanti, retti da repressione e delazione strutturali sarebbero crollati un po' prima del 1989 (Muro di Berlino) e la Guerra Fredda forse sarebbe durata meno. Syd Barrett e Robert Plant avrebbe affrettato la fine di un mondo sfatto e incolore, che qualche nostalgico oggi rimpiange.
Se i ragazzi di Mosca al tempo di Breznev e di Varsavia sotto Jaruzelski avessero avuto la loro Woodstock o l'Isola di Wright, il '68, vietato vietare e l'immaginazione al potere, qualche evento rock con la voce rasposa di Joe Cocker (“Whit help from my friends”) e i voli pindarici di Keith Emerson, Jimi Hendrix e Bob Dylan, la storia magari avrebbe intrapreso altre ellissi. Noi avremmo conosciuto gli Impuls e i Neoton e i ragazzi di Bucarest o Sofia i Genesis, i Pink Floyd, gli Stones, i Doors, Frank Zappa (invece del ballo del qua qua e altro rubbish per gente lesionata che esiste solo per l'anagrafe).
Ma la casta – come tutte le caste – protesse se stessa e il rock fu letto per quel che era: un linguaggio universale, planetario, un elemento devastante per gli equilibri politici immobili, che avrebbe portato i ragazzi dell'Est (URSS, Cecoslovacchia, Ungheria, Romania, Repubblica Democratica di Germania, Bulgaria, Polonia) ad assumere atteggiamenti politico-estetici scorrect, supportato protagonismi sociali distanti anni-luce dall'etica comunista grigia, mettendola ontologicamente in crisi e facendola crollare su se stessa ormai priva di linfa vitale, humus.
Alessandro Pomponi ricostruisce 15 anni della loro (e nostra) storia in “Rock oltre Cortina” (Beat, Prog, Psichedelia e altro nei paesi del Blocco Comunista 1963-1978), Tsunami Edizioni, Milano 2016, pp. 400, euro 22, collana “Le tempeste”. Mettendo insieme, con ricchezza di materiali, una sorta di zibaldone esaustivo che, per quel che se ne sa, mancava alla storiografia della musica del XX secolo, e quindi riempie un vuoto sia come informazione ma anche nell'analisi dei fenomeni giovanili passati.
Ogni contaminazione fu impedita, lo scambio di immaginari inibito. La censura fu totale: la mannaia calò su dischi, testi, perfino cover e preoccupati dei loro benefit i burocrati arrivarono a sciogliere i loro gruppi. Il boicottaggio si sviluppò su due livelli: i gruppi rock che nascevano in quegli anni oltre la cortina di ferro, ostacolati e confinati nei ristretti confini di un universo, l'Est, culturalmente ed emozionalmente vivo cui fu negata la possibilità di farsi conoscere extra moenia (se uscivano qualche musicista non tornava più) e i concerti delle band occidentali derubricati a folklore, fenomeni senza alcuna implicazione, virtuosismi narcisisti.
Cosa potevano farci a Bucarest Jim Morrison, Mick Jagger a Budapest, Eric Clapton a Minsk? Già i capelli lunghi, le borchie e l'erba sempre pronta erano sospetti, decadenti, politically scorrect. Come la loro stessa biografia, la trasgressione, la promiscuità . Impoverendone l'etimo, il denso grumo semantico, i burocrati depotenziarono i messaggi del rock e dintorni, palesi e subliminali: gerovital con cui tirarono a campare fino all'89.
Curiosa la storia della cecoslovacca Marta Kubisova (bella come Janis Joplin, tra i primi a firmare Charta 77): dal 1970 al 1977 dovette dedicarsi alla famiglia, al focolare domestico. La misero a tacere con una montatura da servizi segreti: foto oscene. Nel 1971 un giudice (ce n'era uno anche a Berlino est) le dette ragione, ma il boicottaggio non cessò. Il regime aveva paura della sua voce, delle parole e la soffocò. Viene in mente la frase di Einstein sulla stupidità più profonda dell'oceano.
Ma Husak e Ceaucescu han rubato qualcosa anche a noi. La nostra giovinezza è passata senza aver conosciuto i Fortuna, gli Iris, i Lift, i Domino, i No To Co e i Republika. Ci sono mancati i Metropol, i Blue Effect, gli hot-pants di Mira Kubisanska. Sul nostro scaffale, molti buchi neri: per dire, manca l'lp (doppio) “Timisoara”. La nostra vita sarebbe stata diversa, più ricco e contaminato il nostro immaginario se a 15 anni, oltre ai Deep Purple, i Black Sabbath e gli Yes avessimo ascoltato gli Olympic e messo sul piatto dei nostri stereo un lp degli Omega con la voce mostosa di Koncs Zsuzsa (bella come Joan Beaz): costretti a cantare in un film per aggirare la stupidità della censura.
Ha ragione Bertrand Russell: i dogmatismi, tutti, ci rubano l'anima e ci impoveriscono ormai da secoli. La tragedia è che si passa da uno all'altro (politico o religioso) e non se ne intravede il tramonto. A chi interessa: Pomponi è romano, è del 68 e magari s'è fatto le ossa ai concerti del primo maggio e del Circo Massimo. Però, grandi i Flamengo!