di ILARIA STEFANELLI — Un teatro stracolmo e un pubblico in fremente attesa ha popolato ieri il Teatro Politeama Greco di Lecce per la prima del capolavoro per eccellenza di Puccini, Bohème, chiudendo, come ultimo spettacolo di cartellone, la stagione lirica 2016.
In platea, numerose personalità , alte cariche del mondo politico, amministrativo e tribunalizio, mischiate a gente comune, il grande pubblico dei melomani e degli appassionati. Teste bianche mescolate a numerosi giovani, a indicare che il genere ha ancora molto da regalare alle nuove generazioni ed è in grado di coinvolgere e appassionare il pubblico dei concerti rock e pop nella stessa maniera.
In scena il grande capolavoro pucciniano, più che un’opera uno “ stile di vita”.
Durante la guerra dei trent’anni (1618-1648) molti studenti protestanti praghesi (boemi) si rifugiarono a Parigi, città più tollerante in tema di lotte religiose, frequentarono la Sorbona e si distinsero per usi e costumi, presto imitati dagli altri universitari francesi. Questo stile di vita creò i Bohèmiens. che erroneamente venivano associati ai gitani che proprio i francesi credevano provenissero dalla Boemia.
L’associazione tra Bohèmien e gitano, la troviamo per la prima volta nell’opera Francese “Carmen” di Bizet (1895) “l’amour est enfant de Bohème” ( l’amore è uno zingaro)”. Il vivere come bohèmien non è necessariamente associato a problemi di ristrettezze economiche, altrimenti si parlerebbe solo di poveri o sbandati, ma è una scelta di vita.
Questo movimento s’impose nel corso degli anni sessanta dell’800 come libera traduzione del termine francese bohème, con sentimenti, da parte degli aderenti, di ribellione e disprezzo nei confronti delle convinzioni correnti; da cui nacque il mito della persona che vive di vita dissoluta e irregolare.
Nella “Bohème”, opera di Giacomo Puccini del 1896 – composta dopo Manon Lescaut del 1893 e prima di Tosca – troviamo il Maestro sempre più attratto da Wagner e dall’uso del “leitmotiv” caro al compositore tedesco, che lo porta ad impegnarsi in un modo di musicare diverso dai precedenti. Con la Bohème Puccini trasportò esperienze da lui vissute ai tempi del conservatorio, dove la miseria e le privazioni furono comuni ad artisti dell’epoca (i macchiaioli).
Un lavoro autobiografico, dunque, quello di Puccini, scritto e vissuto sulla scia di ricordi da studente povero in un ‘epoca in cui bastava poco per esser felici nella disgrazia.
Scelta, quindi, niente affatto scontata, quella degli organizzatori di questa stagione, nel puntare su un titolo popolare e amato dal pubblico, ma di farlo cercando di aggiungere attraverso l’allestimento quel qualcosa in più volto a renderlo indimenticabile, fattore di non semplice realizzazione quando ci si cimenta con lavori che vantano dei precedenti buoni e, in parte, ottimi, ai quali contrapporsi, senza velleità di paragone.
Per realizzare ciò la scelta della direzione e della regia è caduta su due nomi di primo piano a livello nazionale e internazionale, il maestro Carlo Maria Micheli per la direzione e il celebre tenore Pietro Ballo per la regia.
E da qui si intende cominciare l’analisi del lavoro rappresentato, per arrivare solo in ultimo agli interpreti.
La regia di Pietro Ballo, delicata, senza forzature, fedele alle ambientazioni tradizionali dell’opera, è stata il vero motore del successo del lavoro. Un lavoro accurato sugli interpreti, di coordinazione, movimento, di sentire interpretativo miscelato magnificamente con il cantato, Ballo ha saputo creare armonia tra i cantanti in scena, li ha fatti fondere, pulsare, miscelarsi, come i colori sulla tavolozza di un pittore e considerando le vite dei protagonisti, direi, non a caso.
Il pan vitalismo di Ballo, uomo di palcoscenico, interprete d’esperienza, ha saputo trasmettere e firmare un lavoro in cui ogni elemento in scena parlava, anche in silenzio, tutto assumeva la consistenza zuccherata del carillon, partendo dalle caratteristiche di ciascun personaggio, a quelle che la regia ha fatto scoprire a ciascun interprete partendo dalle personali qualità umane di ciascuno, senza alcuna forma di forzatura. L’occhio di bue puntato su Musetta, la bella e civettuola, riusciva ad evocare allo spettatore immagini da Tabarin, immagini quasi cinematografiche, spaziando nell’evocazione, da Marlene Dietrich a Jessica Rabbit, da Greta Garbo ad Anna Magnani. La mescolanza degli interpreti con un coro in movimento, coloratissimo, partecipe di ogni singola azione scenica, un coro, spettacolare per resa scenica e vocalità , diretto da Vincenza Baglivo, che non fa da sfondo o da cornice, ma è parte integrante e protagonista tra i protagonisti.
L’uomo con i palloncini, nel suo incedere aggraziato ed elegante in simbiosi completa col resto, la scelta delle immagini video proiettate in concomitanza quasi a far da scenografia o come ad evocare un ricordo lontano, un ricordo dello stesso Ballo regista, un ricordo della propria gioventù artistica, non è dato sapere.
Ciò che è certo è che il pubblico sia stato risucchiato come all’interno di “ Musica a le Tuileries” di Manet.
Se a questo lavoro di regia si affianca il tessuto musicale offerto dalla direzione del maestro Micheli e dell’orchestra, non stupirà affatto la reazione entusiastica del pubblico a fine spettacolo. Il direttore è stato assai efficace nel rendere le varie atmosfere dell’opera, dando risalto, respiro e ampiezza alle splendide oasi melodiche dei primi due quadri, immersi in una vaporosa brillantezza. Bene anche nel proseguo, quando il pericolo di cadere nell’enfasi e nella retorica è costante e in cui, al contrario, Micheli si è distinto per una lettura asciutta, scabra, che nulla ha tolto alla drammaticità tipicamente novecentesca della musica di Puccini.
Una buona prova scenica per il soprano Dafne Tian Hui, una bravura e una tecnica indiscutibili , ma forse non da Mimì.
Canta bene la Hui e anche ieri ha eseguito tutto come si deve, ma permane chiaramente quella sensazione di affettazione, di una certa rigidità anche fisica nei movimenti, che non sembra farla stare a suo agio nei panni del personaggio.
Discorso quasi analogo per il soprano Maria Francesca Mazzara, che rispetto alla Hui ha osato, cimentandosi in un ruolo non semplice, con ottima padronanza vocale, ma anche qui con una rigidità meno evidente della Hui, certamente più disinvolta, ma non al top. Una voce promettente quella della Mazzara e nel complesso, così come dimostrato dall’ovazione dimostratale dal pubblico, una Musetta quindi nel tutto sommato, graziosa e accattivante.
Il podio questa volta però si tinge d’azzurro.
Il cast dei comprimari funziona come un orologio svizzero.
Marcello ( il baritono Francesco Baiocchi), Shaunard ( il baritono Giovanni Guarino), e Colline ( il basso Fulvio Valenti), sono le imperdibili simpatiche canaglie di questo show. Ognuno di loro sa offrire una prova generosa, sotto il profilo vocale e recitativo che convince e che diverte dall’inizio alla fine, un pittore, un musicista e un filosofo, tre giovani scanzonati e sgangherati che incarnano alla perfezione l’idea degli scapigliati, eredi naturali dei Bohemien.
Nello specifico, bravo Baiocchi, dalla franca voce baritonale che gli ha consentito di interpretare un Marcello temperamentoso e guascone ma allo stesso tempo capace di accenti più meditati e riflessivi.
Guarino è stato un ottimo Schaunard, al quale ha dato un rilievo inconsueto anche dal lato attoriale.
Fulvio Valenti, bella voce di basso, morbida e calda, ha ben figurato nei panni di Colline. Su Valenti occorre un ulteriore precisazione. Voce e interpretazione che ha già conquistato il pubblico con uno Sparafucile delizioso in Rigoletto, prima opera di cartellone, Valenti con il suo personaggio, anche stavolta ha saputo incantare per quell’accento in più ripetto agli altri interpreti, per la giocosità , la freschezza, il temperamento e la profondità evocativa del suo canto. Valenti ha conquistato uno dei pochi applausi a scena aperta e un tripudio che ha superato quasi quello di Rodolfo durante i saluti finali e non a caso.
Buone le prove di Beinot – Alcindoro di Giovanni Tiralongo e Perpignol di Simon Dongiovanni.
Magistrale prova per il Rodolfo di Antonino Interisano,una interpretazione che ha convinto il pubblico senza dubbio alcuno, dal bel timbro spinto e di ottima estensione verso le note più acute, Interisano ha retto con sicurezza il famoso intenso Do di petto della “Speranza” in “Che gelida manina“ del primo atto, coinvolto nell'emozione dello scrittore innamorato a primo acchito di Mimì, pur conferendo al personaggio corretta credibilità nel contesto della recita. La voce è accattivante, luminosa e apprezzabile per colore e proiezione, interpretazione attoriale intensa, accorata, emozionante e soprattutto “ viva”.
La curiosa e inconsueta presenza in scena del direttore artistico della stagione Carlo Antonio de Lucia, fa sorridere ma non stupisce, perché nello spirito di questo salvataggio stagione di cui tanto si è scritto in queste settimane.
Una stagione tenuta in piedi dalla volontà ( buona) di direzione artistica, proprietà e produzione, una volontà che con la presenza in scena in senso fisico di una delle colonne portanti, intende comunicare che i miracoli partono dal lavoro di squadra, lo spirito di servizio, la collaborazione di tutte le forze coinvolte, se questo avviene, come quest’anno, allora la riuscita, il successo, il pienone in teatro è un risultato che non stupisce, in quanto evidente, ma incoraggia e fa ben sperare e soprattutto dovrebbe sollecitare l’intervento pubblico e privato di partecipazione e sostegno, soprattutto alla luce di un risultato come quello di questa stagione.
Investire in bellezza più che tempo perso è come l’otio senechiano, più che ritorno d’immagine, indiscutibile successo commerciale è investimento per l’anima.
Il più gentile.
In platea, numerose personalità , alte cariche del mondo politico, amministrativo e tribunalizio, mischiate a gente comune, il grande pubblico dei melomani e degli appassionati. Teste bianche mescolate a numerosi giovani, a indicare che il genere ha ancora molto da regalare alle nuove generazioni ed è in grado di coinvolgere e appassionare il pubblico dei concerti rock e pop nella stessa maniera.
In scena il grande capolavoro pucciniano, più che un’opera uno “ stile di vita”.
Durante la guerra dei trent’anni (1618-1648) molti studenti protestanti praghesi (boemi) si rifugiarono a Parigi, città più tollerante in tema di lotte religiose, frequentarono la Sorbona e si distinsero per usi e costumi, presto imitati dagli altri universitari francesi. Questo stile di vita creò i Bohèmiens. che erroneamente venivano associati ai gitani che proprio i francesi credevano provenissero dalla Boemia.
L’associazione tra Bohèmien e gitano, la troviamo per la prima volta nell’opera Francese “Carmen” di Bizet (1895) “l’amour est enfant de Bohème” ( l’amore è uno zingaro)”. Il vivere come bohèmien non è necessariamente associato a problemi di ristrettezze economiche, altrimenti si parlerebbe solo di poveri o sbandati, ma è una scelta di vita.
Questo movimento s’impose nel corso degli anni sessanta dell’800 come libera traduzione del termine francese bohème, con sentimenti, da parte degli aderenti, di ribellione e disprezzo nei confronti delle convinzioni correnti; da cui nacque il mito della persona che vive di vita dissoluta e irregolare.
Nella “Bohème”, opera di Giacomo Puccini del 1896 – composta dopo Manon Lescaut del 1893 e prima di Tosca – troviamo il Maestro sempre più attratto da Wagner e dall’uso del “leitmotiv” caro al compositore tedesco, che lo porta ad impegnarsi in un modo di musicare diverso dai precedenti. Con la Bohème Puccini trasportò esperienze da lui vissute ai tempi del conservatorio, dove la miseria e le privazioni furono comuni ad artisti dell’epoca (i macchiaioli).
Un lavoro autobiografico, dunque, quello di Puccini, scritto e vissuto sulla scia di ricordi da studente povero in un ‘epoca in cui bastava poco per esser felici nella disgrazia.
Scelta, quindi, niente affatto scontata, quella degli organizzatori di questa stagione, nel puntare su un titolo popolare e amato dal pubblico, ma di farlo cercando di aggiungere attraverso l’allestimento quel qualcosa in più volto a renderlo indimenticabile, fattore di non semplice realizzazione quando ci si cimenta con lavori che vantano dei precedenti buoni e, in parte, ottimi, ai quali contrapporsi, senza velleità di paragone.
Per realizzare ciò la scelta della direzione e della regia è caduta su due nomi di primo piano a livello nazionale e internazionale, il maestro Carlo Maria Micheli per la direzione e il celebre tenore Pietro Ballo per la regia.
E da qui si intende cominciare l’analisi del lavoro rappresentato, per arrivare solo in ultimo agli interpreti.
La regia di Pietro Ballo, delicata, senza forzature, fedele alle ambientazioni tradizionali dell’opera, è stata il vero motore del successo del lavoro. Un lavoro accurato sugli interpreti, di coordinazione, movimento, di sentire interpretativo miscelato magnificamente con il cantato, Ballo ha saputo creare armonia tra i cantanti in scena, li ha fatti fondere, pulsare, miscelarsi, come i colori sulla tavolozza di un pittore e considerando le vite dei protagonisti, direi, non a caso.
Il pan vitalismo di Ballo, uomo di palcoscenico, interprete d’esperienza, ha saputo trasmettere e firmare un lavoro in cui ogni elemento in scena parlava, anche in silenzio, tutto assumeva la consistenza zuccherata del carillon, partendo dalle caratteristiche di ciascun personaggio, a quelle che la regia ha fatto scoprire a ciascun interprete partendo dalle personali qualità umane di ciascuno, senza alcuna forma di forzatura. L’occhio di bue puntato su Musetta, la bella e civettuola, riusciva ad evocare allo spettatore immagini da Tabarin, immagini quasi cinematografiche, spaziando nell’evocazione, da Marlene Dietrich a Jessica Rabbit, da Greta Garbo ad Anna Magnani. La mescolanza degli interpreti con un coro in movimento, coloratissimo, partecipe di ogni singola azione scenica, un coro, spettacolare per resa scenica e vocalità , diretto da Vincenza Baglivo, che non fa da sfondo o da cornice, ma è parte integrante e protagonista tra i protagonisti.
L’uomo con i palloncini, nel suo incedere aggraziato ed elegante in simbiosi completa col resto, la scelta delle immagini video proiettate in concomitanza quasi a far da scenografia o come ad evocare un ricordo lontano, un ricordo dello stesso Ballo regista, un ricordo della propria gioventù artistica, non è dato sapere.
Ciò che è certo è che il pubblico sia stato risucchiato come all’interno di “ Musica a le Tuileries” di Manet.
Se a questo lavoro di regia si affianca il tessuto musicale offerto dalla direzione del maestro Micheli e dell’orchestra, non stupirà affatto la reazione entusiastica del pubblico a fine spettacolo. Il direttore è stato assai efficace nel rendere le varie atmosfere dell’opera, dando risalto, respiro e ampiezza alle splendide oasi melodiche dei primi due quadri, immersi in una vaporosa brillantezza. Bene anche nel proseguo, quando il pericolo di cadere nell’enfasi e nella retorica è costante e in cui, al contrario, Micheli si è distinto per una lettura asciutta, scabra, che nulla ha tolto alla drammaticità tipicamente novecentesca della musica di Puccini.
Una buona prova scenica per il soprano Dafne Tian Hui, una bravura e una tecnica indiscutibili , ma forse non da Mimì.
Canta bene la Hui e anche ieri ha eseguito tutto come si deve, ma permane chiaramente quella sensazione di affettazione, di una certa rigidità anche fisica nei movimenti, che non sembra farla stare a suo agio nei panni del personaggio.
Discorso quasi analogo per il soprano Maria Francesca Mazzara, che rispetto alla Hui ha osato, cimentandosi in un ruolo non semplice, con ottima padronanza vocale, ma anche qui con una rigidità meno evidente della Hui, certamente più disinvolta, ma non al top. Una voce promettente quella della Mazzara e nel complesso, così come dimostrato dall’ovazione dimostratale dal pubblico, una Musetta quindi nel tutto sommato, graziosa e accattivante.
Il podio questa volta però si tinge d’azzurro.
Il cast dei comprimari funziona come un orologio svizzero.
Marcello ( il baritono Francesco Baiocchi), Shaunard ( il baritono Giovanni Guarino), e Colline ( il basso Fulvio Valenti), sono le imperdibili simpatiche canaglie di questo show. Ognuno di loro sa offrire una prova generosa, sotto il profilo vocale e recitativo che convince e che diverte dall’inizio alla fine, un pittore, un musicista e un filosofo, tre giovani scanzonati e sgangherati che incarnano alla perfezione l’idea degli scapigliati, eredi naturali dei Bohemien.
Nello specifico, bravo Baiocchi, dalla franca voce baritonale che gli ha consentito di interpretare un Marcello temperamentoso e guascone ma allo stesso tempo capace di accenti più meditati e riflessivi.
Guarino è stato un ottimo Schaunard, al quale ha dato un rilievo inconsueto anche dal lato attoriale.
Fulvio Valenti, bella voce di basso, morbida e calda, ha ben figurato nei panni di Colline. Su Valenti occorre un ulteriore precisazione. Voce e interpretazione che ha già conquistato il pubblico con uno Sparafucile delizioso in Rigoletto, prima opera di cartellone, Valenti con il suo personaggio, anche stavolta ha saputo incantare per quell’accento in più ripetto agli altri interpreti, per la giocosità , la freschezza, il temperamento e la profondità evocativa del suo canto. Valenti ha conquistato uno dei pochi applausi a scena aperta e un tripudio che ha superato quasi quello di Rodolfo durante i saluti finali e non a caso.
Buone le prove di Beinot – Alcindoro di Giovanni Tiralongo e Perpignol di Simon Dongiovanni.
Magistrale prova per il Rodolfo di Antonino Interisano,una interpretazione che ha convinto il pubblico senza dubbio alcuno, dal bel timbro spinto e di ottima estensione verso le note più acute, Interisano ha retto con sicurezza il famoso intenso Do di petto della “Speranza” in “Che gelida manina“ del primo atto, coinvolto nell'emozione dello scrittore innamorato a primo acchito di Mimì, pur conferendo al personaggio corretta credibilità nel contesto della recita. La voce è accattivante, luminosa e apprezzabile per colore e proiezione, interpretazione attoriale intensa, accorata, emozionante e soprattutto “ viva”.
La curiosa e inconsueta presenza in scena del direttore artistico della stagione Carlo Antonio de Lucia, fa sorridere ma non stupisce, perché nello spirito di questo salvataggio stagione di cui tanto si è scritto in queste settimane.
Una stagione tenuta in piedi dalla volontà ( buona) di direzione artistica, proprietà e produzione, una volontà che con la presenza in scena in senso fisico di una delle colonne portanti, intende comunicare che i miracoli partono dal lavoro di squadra, lo spirito di servizio, la collaborazione di tutte le forze coinvolte, se questo avviene, come quest’anno, allora la riuscita, il successo, il pienone in teatro è un risultato che non stupisce, in quanto evidente, ma incoraggia e fa ben sperare e soprattutto dovrebbe sollecitare l’intervento pubblico e privato di partecipazione e sostegno, soprattutto alla luce di un risultato come quello di questa stagione.
Investire in bellezza più che tempo perso è come l’otio senechiano, più che ritorno d’immagine, indiscutibile successo commerciale è investimento per l’anima.
Il più gentile.