BARI - Il Ministero della Pubblica Istruzione ha fatto sapere che gli studenti con disturbi specifici di apprendimento, certificati (Dsa), sono 186.803, di cui 108.844 dislessici, 38.028 disgrafici, 46.979 disortografici e 41.819 discalculici; ma secondo l’Associazione italiana della dislessia sarebbero più di 350 mila.
Nel 2010/2011 erano lo 0,7% della popolazione scolastica; quattro anni dopo, 2014/2015, sono saliti al 2,1%: un aumento vertiginoso e inquietante delle diagnosi che dovrebbe allarmare e suggerire riflessioni non più differibili, a cominciare da un interrogativo di elementare buon senso: possibile che con il passare del tempo, storico, i bambini e i ragazzi siano sempre più “disturbati”, più “deficienti”, meno “adattabili”, meno “adatti”? Siano sicuri che la certificazione dei problemi di apprendimento non sia il modo più comodo, per la scuola, di non mettersi in discussione, di perpetuare logiche e pratiche non “adatte” o “adattabili”? Davvero siano convinti che la medicalizzazione del disagio non rappresenti una forma di “irresponsabilità ” professionale e di autoreferenzialità istituzionale?
Il sospetto, ampiamente suffragato (v. dati OCSE), è che l'apparato funzioni secondo principi più o meno inconsapevoli o inconfessabili che troppo spesso sono all'origine dei disturbi lamentati. Ipotizziamo, per esempio, che la didattica si fondi sul paradigma secondo cui “la scuola è giusta e semmai gli studenti (che non riescono) sono sbagliati”: cosa accadrebbe? Esattamente ciò che sta accadendo: chi meglio si adegua viene accolto, chi non vuole o non può adattarsi viene considerato “anormale”, etichettato, separato e magari “respinto”.
Un autentico paradosso, considerato che la scuola non dovrebbe emarginare chi è diverso, chi non sa, chi non riesce, chi non ha voglia di sapere, riconoscendo, anzi, tutti questi come suoi problemi, come l’oggetto stesso del proprio operare, e non come ostacoli al suo ordinato svolgimento. Se così non fosse, sarebbe più onesto dichiarare, sul frontespizio del PTOF: “Gli studenti sono al servizio della scuola, e non viceversa”.
Maurizio Parodi - Dirigente scolastico - Autore di: "Basta compiti!" (Sonda, 2012)
Nel 2010/2011 erano lo 0,7% della popolazione scolastica; quattro anni dopo, 2014/2015, sono saliti al 2,1%: un aumento vertiginoso e inquietante delle diagnosi che dovrebbe allarmare e suggerire riflessioni non più differibili, a cominciare da un interrogativo di elementare buon senso: possibile che con il passare del tempo, storico, i bambini e i ragazzi siano sempre più “disturbati”, più “deficienti”, meno “adattabili”, meno “adatti”? Siano sicuri che la certificazione dei problemi di apprendimento non sia il modo più comodo, per la scuola, di non mettersi in discussione, di perpetuare logiche e pratiche non “adatte” o “adattabili”? Davvero siano convinti che la medicalizzazione del disagio non rappresenti una forma di “irresponsabilità ” professionale e di autoreferenzialità istituzionale?
Il sospetto, ampiamente suffragato (v. dati OCSE), è che l'apparato funzioni secondo principi più o meno inconsapevoli o inconfessabili che troppo spesso sono all'origine dei disturbi lamentati. Ipotizziamo, per esempio, che la didattica si fondi sul paradigma secondo cui “la scuola è giusta e semmai gli studenti (che non riescono) sono sbagliati”: cosa accadrebbe? Esattamente ciò che sta accadendo: chi meglio si adegua viene accolto, chi non vuole o non può adattarsi viene considerato “anormale”, etichettato, separato e magari “respinto”.
Un autentico paradosso, considerato che la scuola non dovrebbe emarginare chi è diverso, chi non sa, chi non riesce, chi non ha voglia di sapere, riconoscendo, anzi, tutti questi come suoi problemi, come l’oggetto stesso del proprio operare, e non come ostacoli al suo ordinato svolgimento. Se così non fosse, sarebbe più onesto dichiarare, sul frontespizio del PTOF: “Gli studenti sono al servizio della scuola, e non viceversa”.
Maurizio Parodi - Dirigente scolastico - Autore di: "Basta compiti!" (Sonda, 2012)