Italia brutta e volgare, “L'osceno del villaggio” (globale)

di FRANCESCO GRECO — Dies Irae, dies illa... Se un bel giorno, fra mille anni e rotti, molto rotti, i nostri basiti posteri avranno tempo, e voglia, di decodificare il XXI secolo del cluster, il big-data e l'applauso finto, e nello specifico l'Italietta all'ombra del Cupolone e il Vesuvio, potranno farlo scorrendo “L'osceno del villaggio”, di Paolo Vincenti, Edizioni ArgoMenti, Novoli 2016, pp. 222, euro 16 (con le belle vignette di Melanton, Antonio Mele da Galatina, maestro della satira, la prefazione di Antonio Soleti e citazioni da cover famose di Guccini, Bennato, Mina, Vecchioni, Paolo Conte, Elio e le Storie Tese, ecc.).

Solvet saeclum in favilla... Giornalista e scrittore (sublime il romanzo “NeroNotte”, Libellula 2013), Vincenti è uno degli scrittori bordeline più sapidi oggi in Italia, un intellettuale (“rabdomante di parole”) con una solida formazione culturale e politica, una sensibilità superiore, una personalissima visione del mondo declinata con una password ricca, polisemica: sociologica, antropologica, filosofica, estetica, massmediatica.

Apri a caso, inciampi in uno dei 53 piccoli saggi (apparsi fra 2014 e 2016) e hai conferma del paese brutto e volgare in cui ci siamo, e ci hanno, cacciati (micidiali le ultime due devastanti patologie: berlusconismo vs renzismo, transustanziate dal ventennio) e da cui chi può scappa verso la civiltà. Dies Irae... Ogni bellezza è distrutta, la poesia insudiciata, senza più welfare né diritti se non cartacei, solo truce propaganda martellante, asfissiante per convincerci – ma non ci riesce - che è il migliore dei mondi possibili e farci accettare tutto: mentre altri popoli (i francesi e i belgi, per dire) sono in lotta contro le riforme del lavoro, noi zitti e mosca.

La prevalenza del cretino e il furbo è ossificata in archetipo. La fuga da ogni responsabilità sistema, il cloroformio mediatico addormenta le coscienze: si suole chiamare “declino” o “degrado”. Formattato il passato, viviamo sospesi in un presente ispido di metastasi culturali contaminate, ibridati luoghi comuni, blindati in solitudini deliranti e cupe, cui fa da controcanto la corruzione del senso e il tradimento della parola, la desertificazione dei significanti significanti e lo smarrimento di ogni mission.

(Paolo Vincenti)
Teste David cum Sybilla.,.. Ci si inoltra nelle pagine e in sottofondo par di sentire Benigni vs Dante: Ahi serva Italia di dolore ostello / nave senza nocchiero in gran tempesta / non donna di provincia ma bordello... E' il background della decadenza che ci avvolge come perfido peplo, in un paese che si avvia a diventare, come profeticamente disse Metternich due secoli fa, “un'espressione geografica”.
Forse occorre frugare nel dna per scoprire la predisposizione genetica dell'italiano medio a servire e affidarsi agli istrioni, i pallonari, i messia che rimestano nella menzogna e nel grottesco, i nichilisti e i corrotti, i giocatori delle tre carte, gli illusionisti che mostrano sempre gli stessi cannoni, impostori che distribuiscono assegni a vuoto.

Teste David cum Sybilla... Metabolizzati McLuhan e Popper (“tv cattiva maestra”), Vincenti è sprezzante come Oscar Wilde, devastante come Karl Kraus, irridente come Jerome K. Jerome. “Non sono un politico, né un antropologo, né un sociologo né un filosofo” (e manco un massmediologo), premette. Poi si tradisce: “Io sono greco”, e quindi filosofo, speculo, cogito sul mio tempo “pittoresco”, direbbe Kraus, e le sue sconcezze, specie quelle invisibili, carsiche, in un saggio a metà fra pamphlet e divertissment, che andrebbe adottato nelle scuole del Granducato (di Toscana).
Insospettato cultore della tv-spazzatura (ma per documentarsi, “ci dicono verso quale abisso di squallore e vuoto mentale sta andando il paese”), Vincenti scopre un Varoufakis che a Bruxelles deve scegliere fra la bionda e le more: così vuole Wittgenstein, un Carlo Magno sanguinario in nome di Dio (i Capitolari contro i Sassoni sono un inno alla pena di morte), la sovrapposizione della morte di Tommaso Moro e S. Cipriano, Berlusconi nel fuoco dell'ordalia, il desolato pauperismo di Francesco e Mattarella. Ma anche le chiangimorti (prefiche), cosa mangiano gli Ebrei, del parrucchino di Elton Jhon, che dicono i filosofi della caduta dei capelli (Sinesio è uno), dei prof. Pizzileo e Seclì, dei consigli di Seneca, “perché all'uomo saggio non convenga prender moglie”, il massacro degli Armeni, 1915, ecc.

Dies illa... Tic, manie, mode, liturgie, furbizie, paranoie: il campione è vasto, quasi esaustivo. Uno zibaldone che odora di carne marcia, Italian graffiti sullo sfondo del pensiero unico e qualunquista di Renzi e la sua band. Come il bardo scespiriano, dalla zona franca (Hyde Park) che gli consentiva di spargere il seme di tremende verità, anche sul Re e salvare la testa, più sulfureo di Carmelo Bene e devastante di Sergio Saviane, l'iconoclasta Vincenti ha licenza poetica di scaraventare nella polvere i miti, le sublimazioni su cui noi “pecore anarchiche” (Montanelli) abbiamo costruito vite insulse, sfatte da pregiudizi e conformismo, da consumatori di emozioni seriali e food-spazzatura (tv del dolore, Vespa, d'Urso).

Solvet saeclum in favilla... Ectoplasmi del villaggio globale, dall'autostima debole, l'io claudicante, dediti ai propri trigliceridi, incapaci di guardare oltre il proprio ombelico, di sortire dalla “selva oscura” per immaginare altri mondi, di cercare l'isola che non c'è, Utopia, il vello d'oro, la Città del Sole o la Città di Dio. Ma quando scopriamo che il moralista (ben pagato) Giletti calpesta il libro di Capanna, allora basta, ci arrendiamo, è finita: l'osceno ha vinto, non c'è più speranza, ce n'andiamo in esilio come Cicerone, “giorni banali, non vissuti” sono all'orizzonte.

Atlantide non è fatto per noi italieni, Thule come Carneade: moriremo appesi ai confini del nostro nulla desertificato, privo di semantica e d'ombra, ansiosi di essere “teletrasportati in un'altra dimensione”, magari a “Ballando con le stelle”. Ben ci sta.
Dies Irae, dies illa / solvet...

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