di PIERO FABRIS — Un libro schietto, chiaro, limpido non retorico, vero e disincantato. Un testo di pietra ruvida sul quale chi ha qualche scintilla di coscienza non può scivolare, perché leggendolo l’anima si sfrega, si infiamma, si inquieta, anzi si indigna. Sono righe capaci di tracciare solchi profondi, sono pagine della stessa sostanza dei granelli di terra che si insinuano tra gli interstizi dello spirito ed evocano visi pieni di rughe profonde. Sono fiato e parole assetate della sostanza del sudore di chi ha lasciato le proprie impronte nella terra ocre e arsa dal sole, quel Sole che pesa sulla schiena come cassetta carica dei frutti della nostra bella terra, raccolti che al netto per i braccianti si traduce in un utile di pochi spiccioli.
Enrica Simonetti, giornalista e scrittrice, ci consegna un testo onesto, ben scritto, il frutto di un viaggio compiuto nell'inferno del mondo sommerso del caporalato; il risultato di ricerca, documentazione, incontri interviste che sono un invito a guardare oltre l'immagine da cartolina della nostra “Bella Puglia” fatta di colori, profumi e sapori. L’autrice con questo testo - di circa 142 pagine editato dalla casa editrice “Imprimatur” - svela l’inferno di un mondo taciuto e vissuto come una realtà naturale, immutabile, perciò invisibile che ci scorre parallela, lasciandoci indifferenti.
Dopo aver letto queste pagine, si finisce col guardare diversamente (uva, olive, pomodori, ciliegie e altro ancora che la madre terra per grazia e bontà dona per il palato) ai nostri prodotti di qualità, tutti posti in bella mostra su uno scomparto o in una cassetta, sulle bancarelle e cioè nell’ultimo vagone di una catena che si offre ai desideri della gola. Per un attimo, ma solo un attimo, ci si chiede quanto lavoro e quante vite ci sono dietro questi frutti? La Simonetti è una di quei pochi che ha bisogno di toccare prima di testimoniare, raccontare, perciò scende in campo, va tra i ghetti. Prima di scrivere ha visto, sentito, ha ascoltato, ha incontrato e, per quanto si sia limitata a raccontare i fatti, si coglie tra le sue righe la forza “scottante”, il segno del vero di gente che soffre, accetta nell’idea che tutto sarà migliore. Ci si chiede: “Perché certi sistemi di lavoro che sembrano appartenenti al secolo scorso vivono, anzi si affinano, adeguano e continuano a seminare e mietere ingiustizia?” Sono sistemi contro i quali nessuno si ribella, perché rappresentano ossigeno per chi è ‘solo’ e nella sopravvivenza. Ma questo può anestetizzare le coscienze? In questo libro non vi è solo la denuncia, ma anche un rivolo di speranza di cambiamento. Vi è la forza di certe donne e certi uomini capaci di fermare il sistema e far breccia nella collettività.
In uno degli ultimi capitoli la giornalista accenna a un monumento, in quel di Oria, dedicato agli orrori del lavoro nero, poggiato su una aiuola attorno al quale la vita quotidiana continua a scorrere in fiumi di auto tra le case e gli alberi. In queste poche righe è racchiusa l’indifferenza, l'ipocrisia, la cecità, la sordità dell’anima di quanti non vogliono andare oltre i muretti a secco, i casolari abbandonati dietro i quali sono mimetizzati eserciti di sfruttati, ma l’autrice di: “Morire come Schiavi” non si ferma, la morte di Paola Clemente e di tutte le vittime del Caporalato hanno trovato eco in lei.
Enrica Simonetti, giornalista e scrittrice, ci consegna un testo onesto, ben scritto, il frutto di un viaggio compiuto nell'inferno del mondo sommerso del caporalato; il risultato di ricerca, documentazione, incontri interviste che sono un invito a guardare oltre l'immagine da cartolina della nostra “Bella Puglia” fatta di colori, profumi e sapori. L’autrice con questo testo - di circa 142 pagine editato dalla casa editrice “Imprimatur” - svela l’inferno di un mondo taciuto e vissuto come una realtà naturale, immutabile, perciò invisibile che ci scorre parallela, lasciandoci indifferenti.
Dopo aver letto queste pagine, si finisce col guardare diversamente (uva, olive, pomodori, ciliegie e altro ancora che la madre terra per grazia e bontà dona per il palato) ai nostri prodotti di qualità, tutti posti in bella mostra su uno scomparto o in una cassetta, sulle bancarelle e cioè nell’ultimo vagone di una catena che si offre ai desideri della gola. Per un attimo, ma solo un attimo, ci si chiede quanto lavoro e quante vite ci sono dietro questi frutti? La Simonetti è una di quei pochi che ha bisogno di toccare prima di testimoniare, raccontare, perciò scende in campo, va tra i ghetti. Prima di scrivere ha visto, sentito, ha ascoltato, ha incontrato e, per quanto si sia limitata a raccontare i fatti, si coglie tra le sue righe la forza “scottante”, il segno del vero di gente che soffre, accetta nell’idea che tutto sarà migliore. Ci si chiede: “Perché certi sistemi di lavoro che sembrano appartenenti al secolo scorso vivono, anzi si affinano, adeguano e continuano a seminare e mietere ingiustizia?” Sono sistemi contro i quali nessuno si ribella, perché rappresentano ossigeno per chi è ‘solo’ e nella sopravvivenza. Ma questo può anestetizzare le coscienze? In questo libro non vi è solo la denuncia, ma anche un rivolo di speranza di cambiamento. Vi è la forza di certe donne e certi uomini capaci di fermare il sistema e far breccia nella collettività.
In uno degli ultimi capitoli la giornalista accenna a un monumento, in quel di Oria, dedicato agli orrori del lavoro nero, poggiato su una aiuola attorno al quale la vita quotidiana continua a scorrere in fiumi di auto tra le case e gli alberi. In queste poche righe è racchiusa l’indifferenza, l'ipocrisia, la cecità, la sordità dell’anima di quanti non vogliono andare oltre i muretti a secco, i casolari abbandonati dietro i quali sono mimetizzati eserciti di sfruttati, ma l’autrice di: “Morire come Schiavi” non si ferma, la morte di Paola Clemente e di tutte le vittime del Caporalato hanno trovato eco in lei.