Notizie storiche dei principali teatri di Bari
di ROSA LORUSSO — Tra la fine del XVIII e la prima metà del XIX secolo sorgono in Italia, così come nel resto dell’Europa, teatri “fissi” in pietra, meno esclusivi dei teatri dell’aristocrazia e di certo meno effimeri dei teatri di legno di precedenti realizzazioni. Possiamo considerare questa corsa verso il “Teatro Nuovo” come un punto d’onore per mostrare il grado di incivilimento e la potenza economica di una città. Nel Regno borbonico tutto ciò fu reso possibile, vista l’endemica ristrettezza dei bilanci comunali, dalla confisca dei beni ecclesiastici.
Gioacchino Murat mostrò di voler risolvere il problema della destinazione d’uso di un patrimonio difficilmente collocabile sul mercato moltiplicando le concessioni ai Comuni per utilizzazioni legate allo sviluppo di servizi (scuole, ospedali, teatri).
TEATRO “PICCINNI”
Del Teatro Piccinni, si hanno notizie già nei primi anni dell’800. La costruzione nell’antico Palazzo del Sedile, in piazza Mercantile, di un vero e proprio teatro, destinato a sostituire vari ed improvvisati locali di spettacolo, dei quali sono disponibili sporadiche e frammentarie notizie. Esso funzionò per circa trent’anni e cessò di operare all’improvviso, la sera del 13 luglio 1835.
Lo storico Giulio Petroni, testimone oculare, ci informa che, mentre «si assisteva a drammatico spettacolo, s’ode una voce: ‘salviamoci, il teatro cade’». L’allora sindaco, Massenzio Filo, fu messo sotto accusa per aver acconsentito alla riapertura del teatro, dopo accertamenti tecnici, invece di far demolire il locale dissestato. Fin da subito la situazione si presentò complicata. Il Comune aveva venduto il Sedile ad un certo Domenico Fiore per 3.465 ducati, incassandone subito 2.000, e che, il 26 aprile 1824, se lo riprese in fitto per 260 ducati l’anno, allo scopo di continuare a far funzionare il teatro. Il Fiore si era contemporaneamente impegnato a saldare il suo debito residuo, solamente quando l’immobile gli fosse stato riconsegnato in piena disponibilità.
Il 14 luglio 1831, il Decurionato, decise di restituire i 2.000 ducati a Fiore e di riprendersi il Sedile. Nei giorni che seguirono fu sospesa l’attività, in seguito a vari incontri finalizzati alla verifica dello stato dell’immobile attraverso le relative relazioni e verbali.
Non c’erano dubbi sul futuro crollo della struttura e, dato che vi si doveva mettere mano, si pensò di ampliare la capienza ed i servizi legati al teatro, ma fra calcoli di ristrutturazione e varie trattative, acquisti di locali, vendite o affitti, si giunse alla conclusione di recuperare il legname dal palcoscenico e dai palchi e di tutto quanto apparteneva all’amministrazione municipale e venderlo, si pagò così il mancato guadagno alla compagnia teatrale che non aveva potuto più lavorare e si iniziò a pensare alla scelta di un nuovo sito per il nuovo teatro.
Sia pure a malincuore la commissione incaricata scartò per i motivi esposti in precedenza l’idea di utilizzare piazza Mercantile. Qualcuno avrebbe visto sorgere volentieri il teatro dirimpetto al Palazzo della Intendenza (dove in effetti ora si trova) «perché (dicono) si dee provvedere più a’ posteri che a noi, perché ne’ tempi avvenire esso sarà un loco centrale della città». La proposta fu respinta in quanto il posto molto esposto ai venti, lontano dall’allora vita sociale e cittadina e perché non s’intendeva «posporre l’agiatezza de’ presenti a qué che saranno». Furono presi in considerazione altri siti, piazza Ferrarese, il convento di San Benedetto, la banchina di fronte alla piazza coperta (dove ora c’è la piazza alla Marina), il palazzo Monna, il mercato del pesce.
Quest’ultima proposta fu alquanto discussa, ma la commissione respinse l’idea sia perché la zona era sempre dominata dal vento di ponente, sia perché avrebbe rovinato la simmetria armonia degli edifici, privando contemporaneamente le persone provenienti dallo stradone (l’attuale Corso Vittorio Emanuele), della visuale assai gradita del mare (a distanza di decenni, il Teatro Margherita fu costruito proprio sull’originario suolo).
Il 4 novembre 1835 si decise per i terreni di fronte all’Intendenza, sito di proprietà del Comune, il quale avrebbe pagato il mancato raccolto ai contadini che lavoravano quei campi, e «pertanto il Decurionato alla unanimità ha deliberato per la esperienza del proposto sito ed all’effetto destina per la formazione del progetto e disegno l’architetto civile D. Vincenzo Capirri». Sembrava tutto risolto quando il 26 gennaio 1836 una missiva dell’Intendenza datata 16 novembre 1835 ordinava di costruire il teatro nella piazza più grande della città, al posto dell’antico Sedile.
Mai chiarite le ragioni di questo deciso intervento, ma a molti non fu gradita tale imposizione e perciò il 10 luglio 1836, ignorando la missiva, si fece passare la proposta che vedeva prescelto il sito posto davanti al palazzo dell’Intendenza, e con 12 voti favorevoli su 20, il cav. Antonio Piccolini, fu designato quale progettista, 7 decurioni volevano affidare l’opera ad un architetto locale, il cav. Tresca Carducci voleva un avviso di concorso nell’ambito della nostra provincia e in Napoli.
Il Petroni suggeriva che la facciata fosse decorata da due ordini architettonici: l’inferiore sostenuto da 4 colonne e 2 pilastri esterni di ordine dorico; il superiore d’ordine ionico antico con 6 pilastri addossati al muro. Le parti laterali sarebbero state decorate a bugnato nella parte inferiore e avrebbero avuto al centro due grandi portoni: uno per ricevere i cocchi che, lasciate le persone nell’andito coperto, sarebbero usciti dalla parte opposta; l’altro per entrare nel pubblico edificio con in fondo un giardino. Nonostante la buona volontà, trascorsero più di tre anni dalla posa, della prima pietra che avvenne nell’ottobre del 1840.
I lavori ebbero inizio sotto la direzione degli architetti Luigi Revest e Vincenzo Fallacara. A quest’ultimo succedette poi l’altro architetto Giuseppe Barbone. La sorveglianza fu affidata ai deputati Antonio Fanelli, Domenico Sagarriga Visconti, Giuseppe de Gemmis e Giuseppe Padolecchia.
Entro il periodo di circa tre anni l’edificio venne portato fino al tetto, con talune modifiche rispetto al progetto originario e soprattutto con i conti in ordine.
I lavori erano quindi a buon punto quando un grosso ostacolo si frappose ad impedirne la prosecuzione. Accadde cioè che, essendo venuto in visita a Bari, nel dicembre del 1843, il re Ferdinando II, l’arcivescovo della città, mons. Basilio Clary, gli rivolse la preghiera di far costruire una chiesa nel nuovo borgo, anche se da più parti gli era stato chiesto di soprassedere, in quanto, appena terminato il teatro si sarebbe edificata la chiesa. Il prelato ignorò tutti ed il sovrano dopo aver avuto risposta negativa, dalle autorità locali, sulla possibilità di trasformare il teatro in chiesa, ordinò di sospendere i lavori e di edificare la chiesa con il denaro stanziato per il teatro.
Il 25 marzo 1844 fu posta la prima pietra della novella Chiesa di San Ferdinando, mentre il Comune si impelagava in una lunga serie di guai, per ottemperare all’ordine del Re. Quando finalmente il 30 maggio 1849 la chiesa fu aperta al culto, si poté finalmente riparlare del teatro.
Si giunse al 1852 quando il nuovo Intendente della Provincia il comm. Luigi Ajossa, riuscì ad ottenere l’assenso a riprendere i lavori interrotti. Fece venire i più rinomati artisti del momento: a Luigi de Lisio furono commissionate le figure del velario; a Leopoldo Galluzzi e Giuseppe Castagna le decorazioni; allo stesso Castagna e al Venier le scene; a Fortunato Querian il macchinario del palcoscenico; a Michele De Napoli il grande telone, sul quale sarebbe stato raffigurato il torneo dato a Bari il 25 agosto 1259 da re Manfredi, in onore dell’imperatore Baldovino. Nel secolo scorso per anni è stato arrotolato in fondo al palcoscenico.
Per quanto concerne la scenografia, furono previste 12 scene complete di teloni, quinte laterali e cieli o soffitti. Le scene avrebbero riguardato i seguenti soggetti: una reggia grandiosa, un interno di tempio magnifico, un gabinetto nobile e galante, bosco, giardino di gusto, marina, piazza con strade, atrio villaggio e carceri. Vi sarebbero stati pure pezzi accessori come: lidi di mare, onde, navigli e barche, alberi, tempietto, tombe, capanne, are, statue, banchine, colonne con piedistalli. Nella scenografia erano inclusi pure sei fondali che avrebbero consentito allestimenti molteplici, in relazione ai vari spettacoli. Un sipario semplice o ‘comodino’ che avrebbe gareggiato con l’eleganza dei maggiori teatri di Napoli.
Circa le decorazioni, veniva prescritto che il velario o soffitto venisse eseguito in conformità al bozzetto «l’Olimpo con Apollo sul cavallo Petaso in mezzo alle muse, con stemmi ed ornati a bassorilievo, dorati con oro di Francia».
Il prospetto degli ultimi 4 ordini di palchi e le decorazioni accessorie dovevano essere con fondo bianco a pastiglia lucida e con ornamenti di cartapesta indorata. Il parapetto del 1° ordine di palchi e la sottostante zoccolatura in stucco lucido imitante il marmo colorato. Il parapetto dei palchi del proscenio avrebbe imitato quello della sala. Per l’arco scenico, si richiedeva la suddivisione in cassettoni. L’interno dei palchi sarebbe stato rivestito con carta di Francia, e scegliendo, per il palco reale, quella vellutata e damascata di colore cremisi.
Il teatro, che occupa il corpo centrale dell’intero edificio, era pronto, ma a chi intitolarlo? Il sindaco, Antonio Carrassi, propose ‘Real Teatro Maria Teresa’, in onore della consorte del sovrano, ma la regina non volle il suo nome su un edificio d’uso profano, e così l’inaugurazione ebbe luogo, senza che il teatro avesse ufficialmente un nome, il 4 ottobre 1854, ed al pubblico così apparve: «64 comodi palchi, compreso quello reale che ne occupava due, disposti in cinque file. Tutti adornati esternamente con rilievi e fregi dorati e, all’interno, con carte imitanti il velluto cremisino; accrescevano il fasto tendine del medesimo colore e cuscini di velluto di lana posti sui davanzali. Nella platea 312 sedie di ferro con cuscini di pelle rossa, oltre a 50 sedie collocate nell’orchestra, di maniera che v’era posto per 1500 spettatori nel complesso».
Il 23 gennaio 1855 seguendo anche la volontà di molti cittadini, il teatro fu intitolato al musicista barese Niccolò Piccinni.
Dalla chiusura del Sedile al completamento del Piccinni, civici amministratori e privati imprenditori dell’epoca, organizzarono il funzionamento di un “Teatro Provvisionale”, ma la documentazione a riguardo è scarsa.
Il Teatro Piccinni ha sempre ospitato spettacoli di grande pregio, pur diventando con il tempo teatro di prosa, e recentemente, per un ventennio, dopo l’incendio del Petruzzelli ha egregiamente continuato la programmazione lirica, (fino alla riapertura del politeama nel 2009).
Attualmente, mentre gli uffici comunali sono regolarmente fruibili, il teatro è chiuso per lavori di restauro e di sicurezza.
Gioacchino Murat mostrò di voler risolvere il problema della destinazione d’uso di un patrimonio difficilmente collocabile sul mercato moltiplicando le concessioni ai Comuni per utilizzazioni legate allo sviluppo di servizi (scuole, ospedali, teatri).
TEATRO “PICCINNI”
Del Teatro Piccinni, si hanno notizie già nei primi anni dell’800. La costruzione nell’antico Palazzo del Sedile, in piazza Mercantile, di un vero e proprio teatro, destinato a sostituire vari ed improvvisati locali di spettacolo, dei quali sono disponibili sporadiche e frammentarie notizie. Esso funzionò per circa trent’anni e cessò di operare all’improvviso, la sera del 13 luglio 1835.
Lo storico Giulio Petroni, testimone oculare, ci informa che, mentre «si assisteva a drammatico spettacolo, s’ode una voce: ‘salviamoci, il teatro cade’». L’allora sindaco, Massenzio Filo, fu messo sotto accusa per aver acconsentito alla riapertura del teatro, dopo accertamenti tecnici, invece di far demolire il locale dissestato. Fin da subito la situazione si presentò complicata. Il Comune aveva venduto il Sedile ad un certo Domenico Fiore per 3.465 ducati, incassandone subito 2.000, e che, il 26 aprile 1824, se lo riprese in fitto per 260 ducati l’anno, allo scopo di continuare a far funzionare il teatro. Il Fiore si era contemporaneamente impegnato a saldare il suo debito residuo, solamente quando l’immobile gli fosse stato riconsegnato in piena disponibilità.
Il 14 luglio 1831, il Decurionato, decise di restituire i 2.000 ducati a Fiore e di riprendersi il Sedile. Nei giorni che seguirono fu sospesa l’attività, in seguito a vari incontri finalizzati alla verifica dello stato dell’immobile attraverso le relative relazioni e verbali.
Non c’erano dubbi sul futuro crollo della struttura e, dato che vi si doveva mettere mano, si pensò di ampliare la capienza ed i servizi legati al teatro, ma fra calcoli di ristrutturazione e varie trattative, acquisti di locali, vendite o affitti, si giunse alla conclusione di recuperare il legname dal palcoscenico e dai palchi e di tutto quanto apparteneva all’amministrazione municipale e venderlo, si pagò così il mancato guadagno alla compagnia teatrale che non aveva potuto più lavorare e si iniziò a pensare alla scelta di un nuovo sito per il nuovo teatro.
Sia pure a malincuore la commissione incaricata scartò per i motivi esposti in precedenza l’idea di utilizzare piazza Mercantile. Qualcuno avrebbe visto sorgere volentieri il teatro dirimpetto al Palazzo della Intendenza (dove in effetti ora si trova) «perché (dicono) si dee provvedere più a’ posteri che a noi, perché ne’ tempi avvenire esso sarà un loco centrale della città». La proposta fu respinta in quanto il posto molto esposto ai venti, lontano dall’allora vita sociale e cittadina e perché non s’intendeva «posporre l’agiatezza de’ presenti a qué che saranno». Furono presi in considerazione altri siti, piazza Ferrarese, il convento di San Benedetto, la banchina di fronte alla piazza coperta (dove ora c’è la piazza alla Marina), il palazzo Monna, il mercato del pesce.
Quest’ultima proposta fu alquanto discussa, ma la commissione respinse l’idea sia perché la zona era sempre dominata dal vento di ponente, sia perché avrebbe rovinato la simmetria armonia degli edifici, privando contemporaneamente le persone provenienti dallo stradone (l’attuale Corso Vittorio Emanuele), della visuale assai gradita del mare (a distanza di decenni, il Teatro Margherita fu costruito proprio sull’originario suolo).
Il 4 novembre 1835 si decise per i terreni di fronte all’Intendenza, sito di proprietà del Comune, il quale avrebbe pagato il mancato raccolto ai contadini che lavoravano quei campi, e «pertanto il Decurionato alla unanimità ha deliberato per la esperienza del proposto sito ed all’effetto destina per la formazione del progetto e disegno l’architetto civile D. Vincenzo Capirri». Sembrava tutto risolto quando il 26 gennaio 1836 una missiva dell’Intendenza datata 16 novembre 1835 ordinava di costruire il teatro nella piazza più grande della città, al posto dell’antico Sedile.
Mai chiarite le ragioni di questo deciso intervento, ma a molti non fu gradita tale imposizione e perciò il 10 luglio 1836, ignorando la missiva, si fece passare la proposta che vedeva prescelto il sito posto davanti al palazzo dell’Intendenza, e con 12 voti favorevoli su 20, il cav. Antonio Piccolini, fu designato quale progettista, 7 decurioni volevano affidare l’opera ad un architetto locale, il cav. Tresca Carducci voleva un avviso di concorso nell’ambito della nostra provincia e in Napoli.
Il Petroni suggeriva che la facciata fosse decorata da due ordini architettonici: l’inferiore sostenuto da 4 colonne e 2 pilastri esterni di ordine dorico; il superiore d’ordine ionico antico con 6 pilastri addossati al muro. Le parti laterali sarebbero state decorate a bugnato nella parte inferiore e avrebbero avuto al centro due grandi portoni: uno per ricevere i cocchi che, lasciate le persone nell’andito coperto, sarebbero usciti dalla parte opposta; l’altro per entrare nel pubblico edificio con in fondo un giardino. Nonostante la buona volontà, trascorsero più di tre anni dalla posa, della prima pietra che avvenne nell’ottobre del 1840.
I lavori ebbero inizio sotto la direzione degli architetti Luigi Revest e Vincenzo Fallacara. A quest’ultimo succedette poi l’altro architetto Giuseppe Barbone. La sorveglianza fu affidata ai deputati Antonio Fanelli, Domenico Sagarriga Visconti, Giuseppe de Gemmis e Giuseppe Padolecchia.
Entro il periodo di circa tre anni l’edificio venne portato fino al tetto, con talune modifiche rispetto al progetto originario e soprattutto con i conti in ordine.
I lavori erano quindi a buon punto quando un grosso ostacolo si frappose ad impedirne la prosecuzione. Accadde cioè che, essendo venuto in visita a Bari, nel dicembre del 1843, il re Ferdinando II, l’arcivescovo della città, mons. Basilio Clary, gli rivolse la preghiera di far costruire una chiesa nel nuovo borgo, anche se da più parti gli era stato chiesto di soprassedere, in quanto, appena terminato il teatro si sarebbe edificata la chiesa. Il prelato ignorò tutti ed il sovrano dopo aver avuto risposta negativa, dalle autorità locali, sulla possibilità di trasformare il teatro in chiesa, ordinò di sospendere i lavori e di edificare la chiesa con il denaro stanziato per il teatro.
Il 25 marzo 1844 fu posta la prima pietra della novella Chiesa di San Ferdinando, mentre il Comune si impelagava in una lunga serie di guai, per ottemperare all’ordine del Re. Quando finalmente il 30 maggio 1849 la chiesa fu aperta al culto, si poté finalmente riparlare del teatro.
Si giunse al 1852 quando il nuovo Intendente della Provincia il comm. Luigi Ajossa, riuscì ad ottenere l’assenso a riprendere i lavori interrotti. Fece venire i più rinomati artisti del momento: a Luigi de Lisio furono commissionate le figure del velario; a Leopoldo Galluzzi e Giuseppe Castagna le decorazioni; allo stesso Castagna e al Venier le scene; a Fortunato Querian il macchinario del palcoscenico; a Michele De Napoli il grande telone, sul quale sarebbe stato raffigurato il torneo dato a Bari il 25 agosto 1259 da re Manfredi, in onore dell’imperatore Baldovino. Nel secolo scorso per anni è stato arrotolato in fondo al palcoscenico.
Per quanto concerne la scenografia, furono previste 12 scene complete di teloni, quinte laterali e cieli o soffitti. Le scene avrebbero riguardato i seguenti soggetti: una reggia grandiosa, un interno di tempio magnifico, un gabinetto nobile e galante, bosco, giardino di gusto, marina, piazza con strade, atrio villaggio e carceri. Vi sarebbero stati pure pezzi accessori come: lidi di mare, onde, navigli e barche, alberi, tempietto, tombe, capanne, are, statue, banchine, colonne con piedistalli. Nella scenografia erano inclusi pure sei fondali che avrebbero consentito allestimenti molteplici, in relazione ai vari spettacoli. Un sipario semplice o ‘comodino’ che avrebbe gareggiato con l’eleganza dei maggiori teatri di Napoli.
Circa le decorazioni, veniva prescritto che il velario o soffitto venisse eseguito in conformità al bozzetto «l’Olimpo con Apollo sul cavallo Petaso in mezzo alle muse, con stemmi ed ornati a bassorilievo, dorati con oro di Francia».
Il prospetto degli ultimi 4 ordini di palchi e le decorazioni accessorie dovevano essere con fondo bianco a pastiglia lucida e con ornamenti di cartapesta indorata. Il parapetto del 1° ordine di palchi e la sottostante zoccolatura in stucco lucido imitante il marmo colorato. Il parapetto dei palchi del proscenio avrebbe imitato quello della sala. Per l’arco scenico, si richiedeva la suddivisione in cassettoni. L’interno dei palchi sarebbe stato rivestito con carta di Francia, e scegliendo, per il palco reale, quella vellutata e damascata di colore cremisi.
Il teatro, che occupa il corpo centrale dell’intero edificio, era pronto, ma a chi intitolarlo? Il sindaco, Antonio Carrassi, propose ‘Real Teatro Maria Teresa’, in onore della consorte del sovrano, ma la regina non volle il suo nome su un edificio d’uso profano, e così l’inaugurazione ebbe luogo, senza che il teatro avesse ufficialmente un nome, il 4 ottobre 1854, ed al pubblico così apparve: «64 comodi palchi, compreso quello reale che ne occupava due, disposti in cinque file. Tutti adornati esternamente con rilievi e fregi dorati e, all’interno, con carte imitanti il velluto cremisino; accrescevano il fasto tendine del medesimo colore e cuscini di velluto di lana posti sui davanzali. Nella platea 312 sedie di ferro con cuscini di pelle rossa, oltre a 50 sedie collocate nell’orchestra, di maniera che v’era posto per 1500 spettatori nel complesso».
Il 23 gennaio 1855 seguendo anche la volontà di molti cittadini, il teatro fu intitolato al musicista barese Niccolò Piccinni.
Dalla chiusura del Sedile al completamento del Piccinni, civici amministratori e privati imprenditori dell’epoca, organizzarono il funzionamento di un “Teatro Provvisionale”, ma la documentazione a riguardo è scarsa.
Il Teatro Piccinni ha sempre ospitato spettacoli di grande pregio, pur diventando con il tempo teatro di prosa, e recentemente, per un ventennio, dopo l’incendio del Petruzzelli ha egregiamente continuato la programmazione lirica, (fino alla riapertura del politeama nel 2009).
Attualmente, mentre gli uffici comunali sono regolarmente fruibili, il teatro è chiuso per lavori di restauro e di sicurezza.