Quel dèmone oscuro della “servitù volontaria”

di FRANCESCO GRECO — “Vedendo questa gente che striscia ai piedi del tiranno talvolta ho pietà della loro stupidità. Non basta che obbediscano, devono compiacerlo, devono ammazzarsi per i suoi affari”. Perché questa voluttà del servire? “Gli uomini nascono servi e vengono educati come tali... sotto i tiranni, è facile diventare vili ed effeminati... quelli cui la tirannide sembra vantaggiosa quasi equivalgono a quelli che preferirebbero la libertà...”.

Fu breve la parabola di Etienne de la Boétie: solo 33 anni (1530, Sarlat, a due passi da Bordeaux -1563). Vissuti però intensamente, nello spirito dell'epoca, il Cinquecento con l'uomo che già respira l'ansia febbricitante dei Lumi.

Da ragazzo legge e traduce Senofonte e Plutarco, padroneggia i classici che gli trasmettono un anelito di libertà e immortalità. Segue i corsi di Diritto all'Università di Orléans, gli stessi anni in cui butta giù questo sublime “Discorso sulla servitù volontaria”, Chiarelettere, Milano 2015, pp. 74, euro 7.90, prefazione di Paolo Flores d'Arcais e due saggi in appendice ottimamente tradotti da Silvia Ecclesie.
A 23 anni lo chiama il Parlamento di Bordeaux. La sua azione politica è ispirata alla tolleranza religiosa e la salvaguardia della libertà di coscienza individuale. Nel 1559 un incontro decisivo per la sua formazione: il filosofo Michel de Montaigne, che sta scrivendo i “Saggi”. Nel 1563 si ammala di peste, muore in pochi giorni.

“La critica della tirannia formulata mezzo millennio fa – osserva Flores – si dimostra viatico straordinario per pensare la servitù volontaria nelle odierne democrazie”. In fondo al libricino alcune dissertazioni di Paul Heinrich Dietrich, barone d'Holbach (“Saggio sull'arte di strisciare a uso dei cortigiani”) e un piccolo, illuminante, attualissimo raccontino dell'austriaco Robert Musil (1880-1942) sul lecchino. Con sottile ironia tutta mitteleuropea, lo scrittore affresca un archetipo diffuso in ogni epoca, latitudini e longitudini, opera di Dio che, dopo la creazione, annoiato “si mise a compiacersi di quanto aveva realizzato”.

Ed ecco che dall'autocompiacimento spuntò il lecchino (da non confondere col leccapiedi, che è più raffinato, subdolo) e che cominciò a fare il suo lavoro. “Non ha mai un'opinione propria, ma quella dei suoi superiori”, dice Musil, che c'insegna a riconoscerlo anche somaticamente, e aggiunge: “Uno dei maggiori punti di forza è la sua memoria... straordinaria... Sono come gli odori, con cui hanno in comune l'inconsistenza...”.

Dove pascolavano i lecchini? Chiosa Musil: “Oggi ci sono lecchini anche tra i politici, tra gli scrittori, i critici, i giornalisti...”. Un “oggi” che si può dilatare al nostro tempo. Ma occorre rassegnarsi, perché “i lecchini sono indispensabili”. Ahimè!

Ci si chiede, infine, se l'uomo cerca davvero la libertà o se, al contrario, vuole solo un padrone da servire per vivere alla sua ombra. Lo scrittore e politico francese mostra che la strada della dignità esiste. Ma è aspra, faticosa: più facile l'altra.

Infatti de la Boètie ammonisce: “Com'è possibile che tanti uomini sopportano un tiranno che non ha forza se non quella che essi gli danno. Da dove prenderebbe i tanti occhi con cui vi spia se voi non glieli forniste? Siate risoluti a non servire più, ed eccovi liberi”. Vale la pena provarci?

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