di FRANCESCO GRECO — L'ansia di “égalité”, si può dire, segna la storia dell'uomo, impregna il suo dna in senso ontologico. Come il culto del bello, la ricerca della bellezza. Dalle prime società organizzate (di cui però poco sappiamo) alla Polis di Pericle, la Domus di Cesare, le “mission” gesuitiche dell'America Latina, la Bastiglia, il socialismo, ecc.
E' un'utopia affascinante, di cui sono pregne ideologie e religioni, immanenza e trascendenza. In certi snodi storici pare a portata di mano, in altri si allontana all'orizzonte. L'ingenuo, il Candido del XXI secolo direbbe: è la globalizzazione, bellezza! E in effetti oggi l'uguaglianza è tornata a essere un Sacro Graal e la mondializzazione che rende le economia connesse la sfuma e la fa impercettibile. Magari, chissà, la decrescita porterebbe un po' di égalité.
Nel frattempo, non ci resta che appollaiarci sulle spalle dei giganti e chiedere loro lumi per apprendere come era concepita in altri tempi, non molto lontani da noi. Ci aiuta un saggio prezioso, di Giuseppe Barbini, “L'origine della disuguaglianza” (Le ragioni della disuguaglianza e della sua critica da Grozio a Rousseau), Edizioni Polistampa - Mauro Pagliai Editore, Firenze 2016, pp. 112, euro 11.
Nel 1754 l'Accademia di Digione indisse un concorso sul tema. Vinse l'abate F. X. Talbert, canonico e accademico di Besancon. Promettente l'incipit, infatti definisce gli uomini “dei sovrani dell'universo a cui la terra è stata data in possesso, che nascono tutti con gli stessi diritti alle sue ricchezze, e che se le dividono con una mostruosa disuguaglianza!”.
Il saggio più bello fu però quello di J. J. Rousseau, per cui la disuguaglianza “è la prima fonte del male” (“Ho mostrato che tutti i vizi che vengono imputati al cuore umano non gli sono affatto naturali...”). Ma non sono da meno il pathos di Voltaire: “Avere gli stessi diritti alla felicità, / è per noi la perfetta e sola eguaglianza” e il mood di Montesquieu, che si richiama ai politici greci (“non rispondevano ad altra forza che potesse sostenerli, se nono quella della virtù”).
Barbini (Castiglion Fiorentino, 1948) propone un excursus estraendone il succo. Dall'umanitarismo di Grozio (la natura “madre comune di tutti e di tutti benefattrice”) al pessimismo di Hobbes per cui gli uomini “non sono affatto socievoli per natura, bensì conflittuali, animati da passioni...”, senza scordare la “ragione naturale” di Locke che parla di “comune diritto degli uomini sui beni offerti dalla natura... devono quindi godere di tutte le cose in comune...”. Curioso Fènelon per cui “lusso e miseria vanno di pari passo” e che mitizza il mondo dei padri fatto di “semplicità, la modestia, la frugalità, la probità...”. Sottinteso: il suo è l'esatto contrario. Sovrapposizione plastica col nostro mondo. Corsi e ricorsi, tutto è ciclico, “l'infinitamente lontano è il ritorno” (Lao-Tzu).
Né mancano i riferimenti a società ideali, utopiche, così avanzate da aver abolito la proprietà privata, e finanche la moneta. Ovviamente, la memoria è stata formattata, e non per caso.
E non si può fare a meno di osservare che quelle società sono spaventosamente simili alla nostra, non solo nella disuguaglianza strutturale, diremmo patologica, ma anche nelle dinamiche sociali: la produzione dei beni è collettiva, il godimento elitario, e poi lo spopolamento delle campagne, “tutte le arti e i mestieri vengono trascurati” (Mandeville) e la povertà che cresce: “Il lusso nutre cento poveri nelle nostre città e ne fa perire centomila nelle nostre campagne...” (Rousseau, attualissimo).
Un saggio utile a capire echi e rimandi, immutati dal Settecento al pixel, che parlando di disuguaglianza finiscono col dire, in modo sottinteso, quanto sia ancora lunga la battaglia affinché gli uomini che nascono uguali, stessi diritti naturali, lo siano anche nella loro breve, ispida, tormentata parabola di vita.
E' un'utopia affascinante, di cui sono pregne ideologie e religioni, immanenza e trascendenza. In certi snodi storici pare a portata di mano, in altri si allontana all'orizzonte. L'ingenuo, il Candido del XXI secolo direbbe: è la globalizzazione, bellezza! E in effetti oggi l'uguaglianza è tornata a essere un Sacro Graal e la mondializzazione che rende le economia connesse la sfuma e la fa impercettibile. Magari, chissà, la decrescita porterebbe un po' di égalité.
Nel frattempo, non ci resta che appollaiarci sulle spalle dei giganti e chiedere loro lumi per apprendere come era concepita in altri tempi, non molto lontani da noi. Ci aiuta un saggio prezioso, di Giuseppe Barbini, “L'origine della disuguaglianza” (Le ragioni della disuguaglianza e della sua critica da Grozio a Rousseau), Edizioni Polistampa - Mauro Pagliai Editore, Firenze 2016, pp. 112, euro 11.
Nel 1754 l'Accademia di Digione indisse un concorso sul tema. Vinse l'abate F. X. Talbert, canonico e accademico di Besancon. Promettente l'incipit, infatti definisce gli uomini “dei sovrani dell'universo a cui la terra è stata data in possesso, che nascono tutti con gli stessi diritti alle sue ricchezze, e che se le dividono con una mostruosa disuguaglianza!”.
Il saggio più bello fu però quello di J. J. Rousseau, per cui la disuguaglianza “è la prima fonte del male” (“Ho mostrato che tutti i vizi che vengono imputati al cuore umano non gli sono affatto naturali...”). Ma non sono da meno il pathos di Voltaire: “Avere gli stessi diritti alla felicità, / è per noi la perfetta e sola eguaglianza” e il mood di Montesquieu, che si richiama ai politici greci (“non rispondevano ad altra forza che potesse sostenerli, se nono quella della virtù”).
Barbini (Castiglion Fiorentino, 1948) propone un excursus estraendone il succo. Dall'umanitarismo di Grozio (la natura “madre comune di tutti e di tutti benefattrice”) al pessimismo di Hobbes per cui gli uomini “non sono affatto socievoli per natura, bensì conflittuali, animati da passioni...”, senza scordare la “ragione naturale” di Locke che parla di “comune diritto degli uomini sui beni offerti dalla natura... devono quindi godere di tutte le cose in comune...”. Curioso Fènelon per cui “lusso e miseria vanno di pari passo” e che mitizza il mondo dei padri fatto di “semplicità, la modestia, la frugalità, la probità...”. Sottinteso: il suo è l'esatto contrario. Sovrapposizione plastica col nostro mondo. Corsi e ricorsi, tutto è ciclico, “l'infinitamente lontano è il ritorno” (Lao-Tzu).
Né mancano i riferimenti a società ideali, utopiche, così avanzate da aver abolito la proprietà privata, e finanche la moneta. Ovviamente, la memoria è stata formattata, e non per caso.
E non si può fare a meno di osservare che quelle società sono spaventosamente simili alla nostra, non solo nella disuguaglianza strutturale, diremmo patologica, ma anche nelle dinamiche sociali: la produzione dei beni è collettiva, il godimento elitario, e poi lo spopolamento delle campagne, “tutte le arti e i mestieri vengono trascurati” (Mandeville) e la povertà che cresce: “Il lusso nutre cento poveri nelle nostre città e ne fa perire centomila nelle nostre campagne...” (Rousseau, attualissimo).
Un saggio utile a capire echi e rimandi, immutati dal Settecento al pixel, che parlando di disuguaglianza finiscono col dire, in modo sottinteso, quanto sia ancora lunga la battaglia affinché gli uomini che nascono uguali, stessi diritti naturali, lo siano anche nella loro breve, ispida, tormentata parabola di vita.