di NICOLA RICCHITELLI — Con l’album “Dietro un grande amore (50 anni di musica)", ha celebrato le sue speciali nozze d’oro con la musica che tanto ha dato alla sua carriera di artista, ma è soprattutto un modo per festeggiare le sue nozze d’oro con suo marito Osvaldo: «Dietro un grande amore c’è la musica e soprattutto mio marito, quest’anno festeggio cinquant’anni di matrimonio con mio marito Osvaldo…».
È una chiacchierata a 360° quella avuta con “La Capinera dell’Emilia”, scendendo da quella “barca che va” da quasi quarant’anni, si sono toccati i tanti temi affrontati dall’artista emiliana nel corso di questi cinquant’anni, dalla prostituzione cantata in “Via Ciclamino” alla solitudine delle donne della “Vedova Bianca”.
D: Orietta, il suo ultimo album si intitola “ Dietro un grande amore (50 anni di musica)”. Come si rimane sulle scene per cosi tanto tempo?
R:«Diciamo che i fattori sono tanti, la professionalità, l’affetto del pubblico, i collaboratori. Non mi sono mai fatta mancare niente, sono sempre stata aiutata e ho sempre dato retta ai tanti consigli cercando di non fare sempre di testa mia. Diciamo pure che sono stata fortunata, è inutile negare che la fortuna ci vuole in tutti i campi del lavoro».
D: Cosa c’è “Dietro un grande amore”?
R:« Dietro un grande amore c’è la musica e soprattutto mio marito, quest’anno festeggio cinquant’anni di matrimonio con mio marito Osvaldo, quindi dietro questo grande amore ci sono loro, senza dimenticare il pubblico e l’affetto che mi riserva da cinquant’anni a questa parte».
D: Da chi è formato oggi il pubblico di Orietta Berti?
R« Il mio è un pubblico di diverse generazioni, dalle coppie appena sposate che mi portano a far vedere i loro piccoli, ma anche signore e signorine che ricordano le loro nonne attraverso le mie canzoni raccontandomi di essere cresciute con le mie canzoni, e tutto questo mi fa piacere perché mi trasmette affetto».
D: Per il brano “Dietro un grande amore” abbiamo tra l'altro una collaborazione molto particolare?
R:«Si, la canzone è di Paolo Limiti, mi ha mandato il provino, e quando mi ha detto il titolo del brano mi sono subito detta che sarebbe stata perfetta per dare il titolo al mio cofanetto, però devo dire che la canzone è molto bella, a me piace molto e piace molto anche alla gente quando la canto durante i concerti. La canzone è stata registrata in due versioni, abbiamo una versione tanghera e una versione rumba su esplicita richiesta di mio marito il quale mi aveva chiesto un qualcosa di più sofisticato. Sembrano due canzoni diverse ma in realtà siamo parlando dello stesso pezzo. Ho registrato anche una versione in spagnolo con relativo video. Inoltre nell’album ci sono alcuni brani in lingua napoletana, registrate volutamente a Napoli con il maestro Enzo Campagnoli, che mi ha già diretto per quattro volte in passato. Del maestro Campagnoli mi piace il suo modo di usare i violini e le ritmiche».
D: Orietta, tutto ebbe inizio con Giorgio Calabrese…?
R:«Certo, devo sempre ringraziare Giorgio Calabrese che all’inizio mi ha fatto da pigmalione, mi ha scoperta come voce nuova ad un con corso, mi ha indirizzata verso Milano per dei provini finchè ho avuto una casa discografica – la Philips Polydor una multinazionale - che mi ha fatto un buon contratto e seguita per diciotto anni. Di lì ho avuto tutta una serie di collaboratori, dapprima un entourage tedesco, poi francese, poi olandesi e quindi brasiliani, finchè ho deciso di produrmi da sola dagli anni ottanta fino ad oggi. Ho registrato tutti i successi, non esattamente con gli arrangiamenti originali perché non si poteva. L’unico rammarico è stato quello di non aver rifatto il folk, perché sarebbe stata una cosa molto elaborata, senza contare che le persone con cui ho collaborato purtroppo non ci sono più».
D: Negli anni lei ha avuto modo di dare voce anche alla sua anima nomade attraverso l’interpretazione della musica degli zingari?
R:«Si, un’altra cosa molto bella che ho fatto è stata quella di interpretare la musica nomade degli zingari. Anche quello è stato un bel lavoro, fatto con la grande orchestra, con degli arrangiamenti molto belli, anche perche i brani si prestavano molto essendo tutte musiche nomadi, dai titoli di queste musiche Luciano Berretta aveva creato i testi visto che erano musiche senza testi, in quanto appunto le musiche degli zingari erano soltanto musicate e mai cantate. È stato un buon lavoro e fatto davvero bene, un lavoro che purtroppo forse era un po’ troppo avanti per quel periodo e non ha avuto il riscontro che hanno avuto altri dischi di folklore italiani».
D: Dire Orietta Berti significa dire “Fin che la barca va”, però sono tanti i brani dove ha affrontato temi impegnativi e delicati, uno fra questi è “Via dei Ciclamini” dove canta il tema della prostituzione in tempi non sospetti?
R:«Si, era un brano del duo Pace – Panzieri, loro sono sempre stati avanti nei tempi oltre ad avere questa ironia molto sottile. Purtroppo dopo la loro morte mi sono affidata ad altri autori, vi è stato un periodo con Balsamo che ha scritto per me delle bellissime canzoni, devo dire che nel corso di questi anni ho sempre cercato di accontentare il mio pubblico, perché se al pubblico dai sempre la stessa minestra anche se buona poi si stanca. Però per i critici sono sempre stata quella di “Fin che la barca va” e basta, praticamente se ho venduto più di venti milioni di dischi non credo gli abbia venduti solo “la barca”, cosi come se un artista sta sulla breccia per cinquant’anni non è solo per una canzone».
D:Altro tema delicato lei lo affronta nel brano “La vedova bianca” dove parla della solitudine delle donne lasciate sole dai mariti partiti al nord o all’estero per lavoro?
R:«Si, ho raccontato la condizione di queste donne che rimanevano sole con i propri figli e che vedevano i mariti una o massimo due volta all’anno. Fortunatamente oggi i tempi sono cambiati visto che chi si traferisce all’estero per lavoro di solito si porta la famiglia. Ricordo la prima tournée in America con Claudio Villa, gli italiani che venivano ai concerti piangevano quando sentivano cantare nella nostra lingua, non dimentico quando venivano nei camerini e cercavano di raccontare in pochissimo tempo la loro vita. Facevano fatica addirittura a parlare perché parlavano in fretta e avevano voglia di sfogarsi, parlavano delle loro mogli che erano a casa con i propri figli, facevano leggere lettere e vedere foto, ogni persona era un libro, un romanzo, allora spiegando questa cosa agli autori ne è nata appunto questa canzone».
D: Lei in “Madre di angelo” ha affrontato il dramma di una mamma che perde un figlio appena nato…
R:«Si, “La mamma di angelo” erano per tutte quelle donne che perdevano il proprio figli appena nati, ed è appunto una canzone nomade, una canzone degli zingari, era musicata per solo violino. Perché abbiamo fatto questo? Perche il maestro Bazzaini in realtà il suo vero nome era dell’est, era un nomade, venendo qui in Italia aveva studiato musica – discendendo lui da una famiglia di musicisti - poi si era fatto una famiglia e quindi aveva ottenuto la cittadinanza italiana. Lui inoltre era un amante del folklore italiano, del folk francese, cosi come del folklore di ogni nazione. Quindi “Madre di un angelo” è stato possibile comporla grazie a Bazzaini e alle parole di Berretta, dove ho raccontato la tragedia di questa mamma che si vede morire il proprio figlio dopo averlo portato in grembo per nove mesi e vedersi trasformare un momento di gioia in un momento di grande dolore. La canzone tra l’altro uscì in piena Guerra Fredda e raccontava in qualche modo anche le paure di tutte le mamme italiane. Ogni mamma aveva paura per il proprio figlio, perché se gli Stati Uniti avessero deciso di fare la guerra alla Russia avrebbero chiamato i nostri figli alle armi, in quanto l’Italia era alleata degli Stati Uniti».
D: Orietta, i vari talent negli ultimi anni hanno lanciato nel mondo della musica diversi giovani artisti. Vi è qualche nome con cui le piacerebbe duettare?
R: «Devo dire che non amo particolarmente i duetti. Oggi i talent lanciano quasi un artista al giorno, bisogna dapprima vedere se dureranno nel tempo».
È una chiacchierata a 360° quella avuta con “La Capinera dell’Emilia”, scendendo da quella “barca che va” da quasi quarant’anni, si sono toccati i tanti temi affrontati dall’artista emiliana nel corso di questi cinquant’anni, dalla prostituzione cantata in “Via Ciclamino” alla solitudine delle donne della “Vedova Bianca”.
D: Orietta, il suo ultimo album si intitola “ Dietro un grande amore (50 anni di musica)”. Come si rimane sulle scene per cosi tanto tempo?
R:«Diciamo che i fattori sono tanti, la professionalità, l’affetto del pubblico, i collaboratori. Non mi sono mai fatta mancare niente, sono sempre stata aiutata e ho sempre dato retta ai tanti consigli cercando di non fare sempre di testa mia. Diciamo pure che sono stata fortunata, è inutile negare che la fortuna ci vuole in tutti i campi del lavoro».
D: Cosa c’è “Dietro un grande amore”?
R:« Dietro un grande amore c’è la musica e soprattutto mio marito, quest’anno festeggio cinquant’anni di matrimonio con mio marito Osvaldo, quindi dietro questo grande amore ci sono loro, senza dimenticare il pubblico e l’affetto che mi riserva da cinquant’anni a questa parte».
D: Da chi è formato oggi il pubblico di Orietta Berti?
R« Il mio è un pubblico di diverse generazioni, dalle coppie appena sposate che mi portano a far vedere i loro piccoli, ma anche signore e signorine che ricordano le loro nonne attraverso le mie canzoni raccontandomi di essere cresciute con le mie canzoni, e tutto questo mi fa piacere perché mi trasmette affetto».
D: Per il brano “Dietro un grande amore” abbiamo tra l'altro una collaborazione molto particolare?
R:«Si, la canzone è di Paolo Limiti, mi ha mandato il provino, e quando mi ha detto il titolo del brano mi sono subito detta che sarebbe stata perfetta per dare il titolo al mio cofanetto, però devo dire che la canzone è molto bella, a me piace molto e piace molto anche alla gente quando la canto durante i concerti. La canzone è stata registrata in due versioni, abbiamo una versione tanghera e una versione rumba su esplicita richiesta di mio marito il quale mi aveva chiesto un qualcosa di più sofisticato. Sembrano due canzoni diverse ma in realtà siamo parlando dello stesso pezzo. Ho registrato anche una versione in spagnolo con relativo video. Inoltre nell’album ci sono alcuni brani in lingua napoletana, registrate volutamente a Napoli con il maestro Enzo Campagnoli, che mi ha già diretto per quattro volte in passato. Del maestro Campagnoli mi piace il suo modo di usare i violini e le ritmiche».
D: Orietta, tutto ebbe inizio con Giorgio Calabrese…?
R:«Certo, devo sempre ringraziare Giorgio Calabrese che all’inizio mi ha fatto da pigmalione, mi ha scoperta come voce nuova ad un con corso, mi ha indirizzata verso Milano per dei provini finchè ho avuto una casa discografica – la Philips Polydor una multinazionale - che mi ha fatto un buon contratto e seguita per diciotto anni. Di lì ho avuto tutta una serie di collaboratori, dapprima un entourage tedesco, poi francese, poi olandesi e quindi brasiliani, finchè ho deciso di produrmi da sola dagli anni ottanta fino ad oggi. Ho registrato tutti i successi, non esattamente con gli arrangiamenti originali perché non si poteva. L’unico rammarico è stato quello di non aver rifatto il folk, perché sarebbe stata una cosa molto elaborata, senza contare che le persone con cui ho collaborato purtroppo non ci sono più».
D: Negli anni lei ha avuto modo di dare voce anche alla sua anima nomade attraverso l’interpretazione della musica degli zingari?
R:«Si, un’altra cosa molto bella che ho fatto è stata quella di interpretare la musica nomade degli zingari. Anche quello è stato un bel lavoro, fatto con la grande orchestra, con degli arrangiamenti molto belli, anche perche i brani si prestavano molto essendo tutte musiche nomadi, dai titoli di queste musiche Luciano Berretta aveva creato i testi visto che erano musiche senza testi, in quanto appunto le musiche degli zingari erano soltanto musicate e mai cantate. È stato un buon lavoro e fatto davvero bene, un lavoro che purtroppo forse era un po’ troppo avanti per quel periodo e non ha avuto il riscontro che hanno avuto altri dischi di folklore italiani».
D: Dire Orietta Berti significa dire “Fin che la barca va”, però sono tanti i brani dove ha affrontato temi impegnativi e delicati, uno fra questi è “Via dei Ciclamini” dove canta il tema della prostituzione in tempi non sospetti?
R:«Si, era un brano del duo Pace – Panzieri, loro sono sempre stati avanti nei tempi oltre ad avere questa ironia molto sottile. Purtroppo dopo la loro morte mi sono affidata ad altri autori, vi è stato un periodo con Balsamo che ha scritto per me delle bellissime canzoni, devo dire che nel corso di questi anni ho sempre cercato di accontentare il mio pubblico, perché se al pubblico dai sempre la stessa minestra anche se buona poi si stanca. Però per i critici sono sempre stata quella di “Fin che la barca va” e basta, praticamente se ho venduto più di venti milioni di dischi non credo gli abbia venduti solo “la barca”, cosi come se un artista sta sulla breccia per cinquant’anni non è solo per una canzone».
D:Altro tema delicato lei lo affronta nel brano “La vedova bianca” dove parla della solitudine delle donne lasciate sole dai mariti partiti al nord o all’estero per lavoro?
R:«Si, ho raccontato la condizione di queste donne che rimanevano sole con i propri figli e che vedevano i mariti una o massimo due volta all’anno. Fortunatamente oggi i tempi sono cambiati visto che chi si traferisce all’estero per lavoro di solito si porta la famiglia. Ricordo la prima tournée in America con Claudio Villa, gli italiani che venivano ai concerti piangevano quando sentivano cantare nella nostra lingua, non dimentico quando venivano nei camerini e cercavano di raccontare in pochissimo tempo la loro vita. Facevano fatica addirittura a parlare perché parlavano in fretta e avevano voglia di sfogarsi, parlavano delle loro mogli che erano a casa con i propri figli, facevano leggere lettere e vedere foto, ogni persona era un libro, un romanzo, allora spiegando questa cosa agli autori ne è nata appunto questa canzone».
D: Lei in “Madre di angelo” ha affrontato il dramma di una mamma che perde un figlio appena nato…
R:«Si, “La mamma di angelo” erano per tutte quelle donne che perdevano il proprio figli appena nati, ed è appunto una canzone nomade, una canzone degli zingari, era musicata per solo violino. Perché abbiamo fatto questo? Perche il maestro Bazzaini in realtà il suo vero nome era dell’est, era un nomade, venendo qui in Italia aveva studiato musica – discendendo lui da una famiglia di musicisti - poi si era fatto una famiglia e quindi aveva ottenuto la cittadinanza italiana. Lui inoltre era un amante del folklore italiano, del folk francese, cosi come del folklore di ogni nazione. Quindi “Madre di un angelo” è stato possibile comporla grazie a Bazzaini e alle parole di Berretta, dove ho raccontato la tragedia di questa mamma che si vede morire il proprio figlio dopo averlo portato in grembo per nove mesi e vedersi trasformare un momento di gioia in un momento di grande dolore. La canzone tra l’altro uscì in piena Guerra Fredda e raccontava in qualche modo anche le paure di tutte le mamme italiane. Ogni mamma aveva paura per il proprio figlio, perché se gli Stati Uniti avessero deciso di fare la guerra alla Russia avrebbero chiamato i nostri figli alle armi, in quanto l’Italia era alleata degli Stati Uniti».
D: Orietta, i vari talent negli ultimi anni hanno lanciato nel mondo della musica diversi giovani artisti. Vi è qualche nome con cui le piacerebbe duettare?
R: «Devo dire che non amo particolarmente i duetti. Oggi i talent lanciano quasi un artista al giorno, bisogna dapprima vedere se dureranno nel tempo».