Da Jim Morrison a Janis Joplin: il rock è immortale

di FRANCESCO GRECO - Il rock è stato (è) un linguaggio universale che ha accomunato molte generazioni in un lasso di tempo di mezzo secolo e a livello planetario. Contrariamente a quanto cantava Guccini, Riccardo Bertoncelli non sparava cazzate e a canzoni le rivoluzioni si fanno, eccome: in politica, nel costume, nella società, nelle coscienze. E lasciano traccia. Lo prova il fatto che è stato combattuto dai tiranni dell'Est europeo, dove le band arrivavano circondate da un'aura mitica e le rockstar erano vissute come “untori”.

Da questi sconvolgimenti epocali noi italiani siamo rimasti sostanzialmente fuori come produzione, limitandoci al ruolo di fruitori: eravamo pur sempre il paese di Caravaggio e di Fellini. Mentre in altre latitudini c'erano i grandi raduni rock (Woodstock, l'Isola di Wright), noi avevamo Sanremo: cantanti azzimati, testi a rima baciata, rubbish nazionalpopolare. Bastava aver ascoltato la voce graffiante di Joe Cocker (“Whit a little help from my friend”) o le sonorità dei Doors (“The End”) per sentirsi a disagio, al limite ridicoli. E mentre il “Club 27” si immolava sovrapponendo vita maledetta sublimata nell'arte fino a confonderle e rimanerne ontologicamente schiacciati, noi ci dedicavamo al gossip insulso e feticista e a finché la barca va guazzando nel provincialismo più deteriore. E se non fosse stato per qualche foglio (“Mucchio Selvaggio”, “Rockstar”) e qualche critico vero, il rock sarebbe passato inosservato. E quando, con le migliori intenzioni, sbarcava in tv, alla seconda puntata era già corrotto da mille compromessi.

Storicizzare un fenomeno così complesso, ricco di innervature d'ogni specie, di contaminazioni carsiche e di superficie, non era impresa facile. Ci si può solo provare. Ed è quello che ha fatto partendo da un input divulgatore e quasi pedagogico Gabriele Medeot in “RockHistory” (Suona la Storia), Edizioni Tsunami, Milano 2016, pp. 178, euro 15,00 (impreziosito da qr che con smartphone o tablet rimandano ai video).

Il solo approccio possibile era quello espressionista ed è quello di Medeot : pennellate sapide, ricche, flash nella memoria, aneddoti rivelatori di un tempo, un contesto, un mondo osservato con la lente particolare di una musica, il rock, nelle sue varie declinazioni, usata anche come una password per entrare nel mistero dell'uomo, del suo cuore, la sua mente.

Le vite dei protagonisti, le loro storie, diventano così l'account speciale che consente di decifrare la storia che abbiamo alle spalle, e che sarebbe giusto magari insegnare nelle scuole, per impedirne l'oblio, dacché essa plasma ormai la nostra coscienza, impregna la nostra cultura. Non solo, ma fa da controcanto alla volgarità, la bruttezza, l'omologazione, all'impotenza in cui siamo precipitati in questi anni di morte civile, di bromuro diffuso, da Berlusconi a Renzi.

Viene quasi voglia di ripartire e riprenderci la soggettività vilipesa e negata con un bel raduno rock, magari sotto la pioggia. Ma se lanciamo l'idea, capace che la pseudo-cultura del compromesso e la consorteria (“cooptati e furbi”) di cui siamo impastati, in un paese morto, ucciso da cosche politiche, culturali, mafiose, ci spaccerebbe Arisa e Gigi D'Alessio per il max della trasgressione. Da suicidio di massa, alla Guyana. E abbiamo così pochi anticorpi che finiremmo col crederci: Janis Joplin e Jim Morrison ci verrebbero in sogno per darci un pugno sui denti.

Posta un commento

Nuova Vecchia

Modulo di contatto