EMIGRAZIONE. Dalla Sicilia al Canada, nell'inferno di amianto

di FRANCESCO GRECO - Struggente l'incipit, ingenua la domanda: “Cos'ero venuto a fare in quella terra strana, così diversa dalla calda e umana Sicilia? Tutto mi appariva fantastico. D'inverno non si distingueva il cielo dalla terra e non esistevano più i colori”.

Gli editori italiani sono folli, irrazionali, masochisti. Hanno formattato dai cataloghi i selvaggi, i maudit, i franchi narratori di qualche anno fa. Scrittori fuori dalle accademie, i salotti tv, ma dentro la carne viva della vita, il tempo, la storia.

Intanto, però, i “marginali”, pur privi di malizia e di scaltri uffici stampa - abili a vendere scrittori mediocri che quasi sempre ti deludono - esistono, vivono accanto a noi, e scrivono divinamente. E, per nostra fortuna, pubblicano donando all'umanità opere deliziose e strettamente necessarie come questa di Filippo La Torre, “Per un pugno di amianto” (L'avventura di un minatore siciliano a Cassiar), Iacobelli Editore, Roma 2016, pp. 256, euro 15 (collana “Frammenti di memoria”).

In una terra senza colori, dove “l'inverno durava praticamente tutto l'anno”, ma generosa (“mai visti pesci così grandi”) e di una bellezza selvaggia, con i boschi imponenti e la neve sfavillante, dove la temperatura può scendere a meno 40, Sal è arrivato – come tanti di noi figli di un dio minore - per cercare pane e dignità. Mai avrebbe immaginato che lasciato il sole di Palermo lo aspettava un patto faustiano col demonio.

“Welcome to Cassiar Country!”, titolava l'opuscolo nelle mani di chi arrivava qui, ma nonostante “le promesse di vita tra le meraviglie di una natura incontaminata, la realtà ci dice che tante delle persone menzionate nelle pagine nessuna potrà mai leggerle”.

Memoria solidissima, Sal(vatore) ricostruisce fin nelle minime interfacce della quotidianità – quasi da seduta psicanalitica - la sua esperienza di emigrazione (nel solco aperto dal fratello Giovanni nel 1954, due anni dopo l'apertura della miniera, poi arriverà anche la moglie che troverà lavoro al mulino) in Canada, al confine con l'Alaska, dove emigrò negli anni Sessanta (il boom economico al Sud non lo vide nessuno, era una suggestione inventata dai media), operaio a scavare una montagna di amianto per conto della Cassiar Asbestos Corporation Limited.

Andata e ritorno (negli '80) in un microcosmo che si trasfigura nella metafora di qualsiasi luogo di lavoro, con i meccanismi e le gerarchie, la spavalderia e la paura, l'umanità e il cinismo sempre uguali (compresi scioperi e sindacati). Poi “quel posto dimentico da ogni umanità” nel 1992 chiuse perché fu provata (ma se ne parlava dai Sessanta) la tossicità delle “fibre di morte dell'asbesto”, che però continuano a vivere nel suo corpo, nei polmoni, tanto che l'operaio si stupisce di poterlo raccontare: “Oggi sono ancora vivo”.

Eppure la prima sensazione dà le vertigini a un ragazzo del Sud cittadino di un regno cancellato scaraventato dalla sorte lontano da casa con capelli e barba in ordine fra compagni che al contrario paiono trogloditi, e che per non pensarci bevono “liquidi di varia natura” (“bevute esagerate”) e fumano sigarette “furbe”: “Sembravamo indistruttibili e padroni degli elementi. Riempivamo di polvere esplosiva le viscere di quella stupida montagna... per meritare la tripla A, assegnato all'asbesto di maggior pregio”.

La disillusione è in agguato: “Sono finito in una specie di dimensione parallela in cui il Sole sta morendo?”. E cresce pagina dopo pagina in un plot che stilisticamente si abbevera ai canoni del naturalismo francese e del verismo italiano, che sarebbe un bel soggetto per un film di De Sica o Visconti e che si può leggere anche con una password antropologica, ma anche socio-economico (fa pensare a Marcinelle e Mattmark, qui l'incidente avviene al South Peak, ma sempre d'agosto...).

Il romanzo ha momenti di poesia (“Il colore del ghiaccio era solcato da venature azzurre e verdi”), di crudezza (“Eravamo giovani. Eravamo incoscienti. Eravamo minatori”, “mi sembrava di essere al confine tra l'inferno e il paradiso”), di realismo (“anch'io, come quei salmoni, stavo andando controcorrente”, “Che si fotta, la Regina!”), come accade quando a parlare è chi lavora, calli alle mani e schiena rotta (“Oggi Cassiar non esiste più, è scomparsa, fatta a brandelli, venduta all'asta, riconquistata dai boschi e dal ghiaccio...”). E', inoltre, impreziosito dal glossario che spiega i termini in uso sul cantiere e nel villaggio.

Dovrebbe essere adottato nelle scuole affinché le generazioni 2.0 sappiano a chi devono quel minimo di benessere che, comunque, ormai si sta prosciugando.

1 Commenti

  1. L'emigrazione è servita come valvola di sfogo per il Paese. Gli emigrati sono stati sfruttati e spremuti come limoni. I politici di turno si sono solo sciacquato la bocca con la parola "emigrazione"!

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