di FRANCESCO GRECO - Blowin in the wind, Bob! Solo gli ingenui si sorprendono perché ancora non ti sei fatto vivo con l'Accademia svedese. Che il tuo cellulare dà sempre “al momento non è raggiungibile, riprovi più tardi, thank you!”. Non ti conoscono bene.
Noi che già conoscevamo i versi deliranti e folli del poeta gallese Dylan Thomas, siamo stati svezzati dalle tue canzoni, formandoci una coscienza civile militante e duratura, che abbiamo letto le traduzioni di “blues, ballate e canzoni” e di “canzoni d'amore e di protesta” sui paperbacks Newton Compton, ci meraviglieremmo del contrario. La leggono come stranezza da star, è solo autodifesa dai riflettori che ti rubano l'anima.
Magari non ci sarai il 10 dicembre a Stoccolma a ritirare il Nobel per la Letteratura 2016, o lo rifiuterai con una mail, chissà, ogni opzione è possibile, “Blond on blonde”...
Dirsi dylaniani nell'altro secolo era naturale, come dirsi seguaci di Faber (De Andrè): due grandi poeti, dal Minnesota a Genova, stessa potenza della parola, stessa chitarra sul mi cantino.
I concerti live erano esperienze indimenticabili, che segnavano. Faber beveva e cantava, cantava e beveva e gli accordi erano più intonati anche nella notte più umida.
Erano i Settanta tumultuosi, escatologici, poetici, l'immaginazione si era levata sino a sfiorare il potere, che poi (“Vecchia piccola borghesia”, Claudio Lolli) si era ripreso tutti gli spazi di agibilità politica, di società, dell'utopia possibile: frutto succoso a portata di mano. C'erano stati Woodstock e l'Isola di Wright, i figli dei fiori, gli hippies, i pacifisti (“peace and love”, “mettete dei fiori nei vostri cannoni”) che si ribellavano a una società ingiusta, elitaria, ormai in cancrena. Sartre e Simone de Beauvoir, Glucksmann e Henry-Levy, Fellini, Antonioni e Pasolini ne cantavano l'orrore.
Vinse la reazione, il terrore divenne un'opzione cieca, il riflusso nel privato naturale (“una dura pioggia cadrà”). Il sogno si fece incubo, “non ne è venuto niente/ e ti dico questa verità/ non per dispetto o per ira/ ma semplicemente perché è vero...” (Dylan). E tuttavia non restava che continuare a soffiare nel vento. Corsi e ricorsi, saremmo tornati al sogno, all'utopia. “Hurricane”... Ha ragione Tiziano Terzani: “Ogni fine è un inizio”. Lui ricomincia a 75 anni (Robert Zimmermann è del '41), e noialtri, disillusi ma non vinti, continueremo a soffiare nel vento sino alla fine, “Knockin on heaven door” (Bussando alla porta del cielo).
Noi che già conoscevamo i versi deliranti e folli del poeta gallese Dylan Thomas, siamo stati svezzati dalle tue canzoni, formandoci una coscienza civile militante e duratura, che abbiamo letto le traduzioni di “blues, ballate e canzoni” e di “canzoni d'amore e di protesta” sui paperbacks Newton Compton, ci meraviglieremmo del contrario. La leggono come stranezza da star, è solo autodifesa dai riflettori che ti rubano l'anima.
Magari non ci sarai il 10 dicembre a Stoccolma a ritirare il Nobel per la Letteratura 2016, o lo rifiuterai con una mail, chissà, ogni opzione è possibile, “Blond on blonde”...
Dirsi dylaniani nell'altro secolo era naturale, come dirsi seguaci di Faber (De Andrè): due grandi poeti, dal Minnesota a Genova, stessa potenza della parola, stessa chitarra sul mi cantino.
I concerti live erano esperienze indimenticabili, che segnavano. Faber beveva e cantava, cantava e beveva e gli accordi erano più intonati anche nella notte più umida.
Erano i Settanta tumultuosi, escatologici, poetici, l'immaginazione si era levata sino a sfiorare il potere, che poi (“Vecchia piccola borghesia”, Claudio Lolli) si era ripreso tutti gli spazi di agibilità politica, di società, dell'utopia possibile: frutto succoso a portata di mano. C'erano stati Woodstock e l'Isola di Wright, i figli dei fiori, gli hippies, i pacifisti (“peace and love”, “mettete dei fiori nei vostri cannoni”) che si ribellavano a una società ingiusta, elitaria, ormai in cancrena. Sartre e Simone de Beauvoir, Glucksmann e Henry-Levy, Fellini, Antonioni e Pasolini ne cantavano l'orrore.
Vinse la reazione, il terrore divenne un'opzione cieca, il riflusso nel privato naturale (“una dura pioggia cadrà”). Il sogno si fece incubo, “non ne è venuto niente/ e ti dico questa verità/ non per dispetto o per ira/ ma semplicemente perché è vero...” (Dylan). E tuttavia non restava che continuare a soffiare nel vento. Corsi e ricorsi, saremmo tornati al sogno, all'utopia. “Hurricane”... Ha ragione Tiziano Terzani: “Ogni fine è un inizio”. Lui ricomincia a 75 anni (Robert Zimmermann è del '41), e noialtri, disillusi ma non vinti, continueremo a soffiare nel vento sino alla fine, “Knockin on heaven door” (Bussando alla porta del cielo).