di FREDERIC PASCALI - È dal 2 giugno del 1983 che il mistero della scomparsa della quindicenne Emanuela Orlandi ritorna ciclicamente sotto la luce dei riflettori. Da allora nessuna inchiesta è riuscita a pervenire a una soluzione, lasciando spazio a tante ipotesi e differenti verità. Una di esse la racconta Roberto Faenza, regista di una pellicola che trae ispirazione dal romanzo di Vito Bruschini, “La verità sul caso Orlandi”.
Una televisione inglese, prendendo spunto dai fatti romani di “Mafia Capitale”, decide di realizzare un reportage sul caso Orlandi, archiviato definitivamente nel 2015 dalla Sesta sezione penale della Cassazione. Il Direttore della testata invia sul posto Maria, una reporter di origini italiane, per mettersi in contatto con Raffaela Notarile, una giornalista Rai che qualche anno prima ha condotto un’inchiesta sulla vicenda raccogliendo la testimonianza di Sabrina Minardi,l’ex compagna di Enrico De Pedis detto “Renatino”, il boss della banda del Testaccio in passato collegato a quelli della Magliana, che già nel 1996 si scoprì essere sepolto nella basilica di Santa Apollinare.
Faenza, autore del soggetto insieme alla “vera” Raffaela Notarile e a Pier Giuseppe Murgia, sviluppa il suo lavoro in una maniera davvero poco convincente. Abbarbicato su di una struttura narrativa ibrida, metà televisiva e metà cinematografica,si perde in una sceneggiatura priva di identità sostenuta da una recitazione appena sufficiente dalla quale emerge la sola Greta Scarano, “Sabrina Minardi”, l’unica in grado di dare un po’ di pathos a personaggi che sembrano sagome di cartongesso.
Tutta la narrazione dà l’impressione di evolversi con grande fatica e l’uso eccessivo di sequenze al rallentatore, e i dialoghi spesse volte inadeguati, sono la riprova di una generale difficoltà.
Per contro, oltre la bella colonna sonora di Theo Teardo, resta la rilevanza sociale di una pellicola che rappresenta un elemento importante per impedire che la richiesta di giustizia e di verità, per una storia mai svelata del tutto, non marcisca prigioniera dell’ignoranza e dell’oblio del tempo.
Una televisione inglese, prendendo spunto dai fatti romani di “Mafia Capitale”, decide di realizzare un reportage sul caso Orlandi, archiviato definitivamente nel 2015 dalla Sesta sezione penale della Cassazione. Il Direttore della testata invia sul posto Maria, una reporter di origini italiane, per mettersi in contatto con Raffaela Notarile, una giornalista Rai che qualche anno prima ha condotto un’inchiesta sulla vicenda raccogliendo la testimonianza di Sabrina Minardi,l’ex compagna di Enrico De Pedis detto “Renatino”, il boss della banda del Testaccio in passato collegato a quelli della Magliana, che già nel 1996 si scoprì essere sepolto nella basilica di Santa Apollinare.
Faenza, autore del soggetto insieme alla “vera” Raffaela Notarile e a Pier Giuseppe Murgia, sviluppa il suo lavoro in una maniera davvero poco convincente. Abbarbicato su di una struttura narrativa ibrida, metà televisiva e metà cinematografica,si perde in una sceneggiatura priva di identità sostenuta da una recitazione appena sufficiente dalla quale emerge la sola Greta Scarano, “Sabrina Minardi”, l’unica in grado di dare un po’ di pathos a personaggi che sembrano sagome di cartongesso.
Tutta la narrazione dà l’impressione di evolversi con grande fatica e l’uso eccessivo di sequenze al rallentatore, e i dialoghi spesse volte inadeguati, sono la riprova di una generale difficoltà.
Per contro, oltre la bella colonna sonora di Theo Teardo, resta la rilevanza sociale di una pellicola che rappresenta un elemento importante per impedire che la richiesta di giustizia e di verità, per una storia mai svelata del tutto, non marcisca prigioniera dell’ignoranza e dell’oblio del tempo.