di FRANCESCO GRECO - “Ciò che è sempre raccomandato è il senso del rispetto per i resti mortali, che siano custoditi in sepoltura o fatti in cenere”, Mons. Bruno Forte, teologo e segretario del Sinodo dei Vescovi a proposito del dibattito cremazione si, no, come. E' bastata questa frase a far riemergere dal sottosuolo della memoria di Alessano e Montesardo (sud Salento) lo “scandalo” del vecchio cimitero monumentale annesso al Convento dei Frati Cappuccini (chiuso alle inumazioni con delibera comunale del 30.07.1960 dopo un secolo di attività) che, sebbene siano passati quasi 5 lustri (era il 1992) resta un nervo scoperto dell'immaginario collettivo. Per molto meno, per aver visto un vetturino che picchiava a sangue il suo cavallo in una piazza di Torino, il filosofo Nietsche impazzì.
Storia di carte bollate, avvocati, polemiche politiche. Ma anche di superficialità e squallore. Finì all'italiana, nelle sabbie mobili dell'oblio: un topos molto in uso a sud. Ma la ferita è aperta. Sgomenti, i cittadini videro le sepolture dei cari estinti violate (“Ruspe nel vecchio cimitero: è rivolta”, Giancarlo Colella, “La Gazzetta del Mezzogiorno”, 11 agosto 1992) e con esse insudiciata la loro memoria, il ricordo degli affetti più cari.
Si scrisse di “scempio”, di “profanazione”, ma anche di “ossa bruciate”. Le cappelle private devastate, i resti infine portati nei due ossari al nuovo cimitero sulla via del mare, ma femori e scapole furono sparsi nei campi, come concime, fatto “disdicevole” (dalle carte processuali) documentato da un ampio reportage.
Fatti mai rimossi dalla memoria popolare, cui nessuno può dirsi estraneo. Non la Chiesa extra moenia: “Sono solo ossa...”, avrebbe infatti minimizzato Mons. Tonino Bello, nato proprio qui: da 10 anni era vescovo di Molfetta, Ruvo, Giovinazzo e Terlizzi aggiravandosi fra le tombe in cerca diq quella del padre. Furiosa la replica del geometra Riccardo Coppola: “E allora prendi a colpi di zappa le ossa di tuo padre”.
La chiesa locale si comportò con leggerezza. Come la politica peggiore, mai assente dal paesaggio. Il sindaco dell'epoca, Rinaldo Rizzo, Dc, sindacalista Cisl (oggi presidente del Gal “Terra di Leuca”: con questi step nel cv si fa carriera), che ai cittadini arrabbiati per le ossa nei campi (e, si scrisse, pure nella “discarica comunale” omologando i resti umani ai rifiuti della nostra epoca truculenta), avrebbe ridacchiato: “Sono ossa di cani”.
Tutto inizia con la scadenza della donazione, datata 1929, sotto il podestà di Alessano Salvatore Zocco, da parte del Comune ai Padri Cappuccini, del suolo dove insiste il camposanto, una cappella, un giardino, un campo di calcio. Alla scadenza il municipio aveva di nuovo concesso l'area ai monaci (delibera del 15.07.1992).
Ma il turismo religioso è un business franco Imu, al centro e in periferia. Ecco l'idea della “foresteria”. Le parole, dice Nanni Moretti, sono “importanti” e ognuno le riempie del significato che vuole. Cosa s'intendeva per “foresteria” lo spiegò con qualche pudore in un'assemblea pubblica a Villa Potenza (è il 1992) il Padre provinciale giunto da Bari, sede della Provincia delle Puglie dei Frati Minori: “Un alberghetto”. E quindi, la destinazione di cui si era parlato per molto tempo, un convento di Clarisse Cappuccine (sostenuta dalla delibera del 30.12.1991) forse era stata messa in giro ad arte per confondere le acque: le Suore oggi vivono beate all'Armino, sulla via per Specchia.
L'estate 1992 fu molto calda. Al 15 giugno risale la delibera n. 27 che sancisce la “soppressione” del cimitero, al 18 agosto il ricorso dei “dolenti” (Marcello Torsello, Pietro Panico, Coppola) che la difesa del Comune (Nicola Stefanizzo) definisce “temerario”, accolto però dal pretore Angelo Sodo, che blocca i lavori “prima facie” e fa divieto a Comune e Frati “di esumare le spoglie dei congiunti e, comunque, dal compiere qualsiasi atto che costituisca 'vulnus' al sepolcro degli stessi”. Più chiaro di così... Al contempo, il prof. Smiraldo Piccinni, titolare della cappella Bello-Piccinni, con lettera del 10.08.1992, chiede al Comune “il rinnovo delle concessioni agli aventi diritto”. Nessuno lo ascolta.
Non è politicamente scorretto fare “alberghetti” o “foresterie”, spartani o a 5 stelle: Roma è piena, accolgono i pellegrini, sennò dormirebbero all'addiaccio fra i gatti del Colosseo. Scorretta è la location: si irrita le sensibilità, si calpesta la memoria dei morti, un valore non ancora relativizzato. Il cimitero è il luogo più caro all'immaginario di tante generazioni (nacque nel 1860, si inumò fino al 1960), riposano i resti mortali dei defunti per cui Mons. Forte raccomanda, e noi con lui, “senso del rispetto”.
Senza dare voce (ma per il Comune ci fu “massima pubblicità” e i parenti sapevano), ai primi di agosto, dal municipio parte una squadra di operai con l'ordine: “Date una ripulita”. Altra parola decodificabile soggettivamente. Cominciarono dalle cappelle di famiglia di pregiato stile architettonico del XIX secolo, con uso di pietra locale (Matine) e di Cursi, con preziosi fregi simbolici: l'orologio, il serpente che si morde la coda, lo scheletro sulla facciata. Alessano ha avuto un'aristocrazia e una borghesia il cui gusto estetico emerge anche nell'architettura funeraria.
Poi si armano di zappe e ruspe. Il Comune nega i “mezzi meccanici”, ma se ci fossero stati davvero avrebbero maciullato i resti delle sepolture a terra e magari qualche tomba sfuggita è ancora intonsa. Giura sulla presenza ai lavori ora del parroco, ora di un frate, ora del maresciallo Cc, ma nelle foto non si vedono. Le sepolture a terra sono quelle dei poveri, del popolo lavoratore (fra cui Ippazio Antonio, fratello di chi scrive, morto di pertosse nel 1954).
Senza saperlo, quegli avventizi formattarono secoli di storia di lotta di classe, da Spartaco a Di Vittorio: ricchi e poveri livellati: fatto rivoluzionario, che richiama alla mente la celebre poesia di Totò, “'A livella” e che, fosse vivo Marx, meriterebbe un saggio. Purtroppo non si potrebbe arricchirlo con le foto degli operai che, sotto un'afa opprimente, giocano con le “sculozze” (teschi) dei nobili e dei loro contadini come a basket: non si trovano.
E dopo i giochi sotto il sole, le ossa ora sono mescolate nei due “cisternoni” del nuovo cimitero dove giungono il 27 ottobre 1994. Recita il frontespizio: “Qui riposano nell'attesa della resurrezione i resti mortali dei nostri fratelli traslati dal vecchio cimitero”.
Un'interrogazione dell'on. Biagio Marzo, Psi, “Finisce in Parlamento la vicenda degli scavi al cimitero”, ancora Colella (“La Gazzetta del Mezzogiorno”, 30 agosto 1992) dà eco istituzionale agli “atti di vandalismo”, mentre inutilmente e ripetutamente i famigliari invocano “carità cristiana” (Piccinni nella suddetta lettera a don Gigi Ciardo, parroco e presidente dei lavori, al Vaticano, al Padre Provinciale dei Cappuccini, al pretore Sodo titolare a Nardò e Alessano, alle curie di Ugento e Molfetta).
Per il sindaco tutto avviene “nel pieno rispetto delle pratiche di pietà” e “le spoglie mortali sono state pietosamente riposte in apposite urne” (ma nelle foto si vedono i sacchi neri della spazzatura), mentre il 29 giugno 1992 si celebra una messa di suffragio a tutti i morti sfrattati.
Ecco cosa vede, in una visita, l'esperto di arte funeraria Antonio Mario Marzo, Dams di Bologna: “Mucchietti d'ossa nel giardino, buste di plastica colme di femori e teschi, ciuffi di capelli biondi, rossi o corvini trascinati dal vento, bare scoperchiate, brandelli di vestiti sparsi dappertutto”.
Forse l'afa annebbiò i cervelli: due anni dopo, autunno 1994, le ossa furono pietosamente portate in due tombe comuni dove, ironia della sorte, accanto si trova la tomba monumentale di don Tonino Bello, il cui dies natalis era avvenuto nell'aprile 1993.
La sensazione amara è che si fu più lealisti del Re: in fondo foresteria e vecchio cimitero avrebbero potuto convivere. E comunque, svela ancora Piccinni in un'altra missiva al Comune (15.09.1992) citando l'atto n. 5128/3582 del notaio G. Nielli, risalente al 17.01.1929, “I FF. MM. Cappuccini avrebbero avuto il possesso dell'annesso Cimitero, solo quando ed appena veniva a cessare l'uso e con esclusione delle sepolture private”. Quindi, a rigor di logica e in punta di diritto, il Comune avrebbe ceduto ciò che non era cedibile: le cappelle private sorte su suoli legalmente acquistati e de facto proprietà privata.
Per la storia: a giugno 1993 si votò, Rizzo fu scacciato, arrivò il nuovo sindaco, un giovane medico, Cosimo Del Casale, Pds. Che aveva cavalcato la rabbia popolare: Rizzo aveva parlato di “campagna scandalistica orchestrata da un gruppo politico rivale”, mentre il periodico “Incontri”, nel numero di settembre 1992, propose un dossier di 4 pp. a cura di A. M. Marzo, che riferendosi allo stile delle cappelle più belle (i Ronzi, i De Giosa, i Torsello, i Sangiovanni, i Bello-Piccinni, ecc.), parlò di “richiami alla simbologia della morte dell'antico Egitto”), ma giunto al potere silenziò tutto: e con la transumanza delle ossa si mise, è il caso si dire, una pietra tombale sullo scandalo.
Il municipio si scordò delle promesse fatte: aveva garantito (in ossequio al DPR. 285 del 10.09.1990, articolo 98) spazi adeguati, e gratuiti, nel nuovo cimitero per la ricostruzione delle cappelle di famiglia (alcune delle quali forse sono sopravvissute alla “ripulita”), che comunque ospitavano, a titolo di cortesia, defunti non registrati: usa (ma a qualcuno è stato dato). Anche perché, è il caso di ribadirlo, i suoli dove insistevano erano stati regolarmente pagati dai concessionari. Meccanismo di “compensazione” invocato come estrema ratio, che mai scattò, mentre i burocrati della Soprintendenza, a buoi lontani, chiusero la stalla invitando i frati a “non manomettere lo stato dei luoghi”.
Oggi, dietro la Chiesetta dei Cappuccini in piazza San Francesco, c'è una spianata di cemento sotto cui forse ci sono ancora tombe, o ossa finite nella malta. Alla “foresteria” ogni tanto bussa qualche pellegrino in crisi spirituale che cerca un luogo di pace e silenzio per meditare e ritrovare se stesso. Ma basta un nulla – le parole di un alto prelato - per rialzare il velo e far scattare il rewind su una delle pagine più buie della storia del paese, in cui la pietas, cristiana o laica, è stata calpestata con una superficialità che fa rabbrividire, macchiando la nostra reputazione presso i posteri.
Storia di carte bollate, avvocati, polemiche politiche. Ma anche di superficialità e squallore. Finì all'italiana, nelle sabbie mobili dell'oblio: un topos molto in uso a sud. Ma la ferita è aperta. Sgomenti, i cittadini videro le sepolture dei cari estinti violate (“Ruspe nel vecchio cimitero: è rivolta”, Giancarlo Colella, “La Gazzetta del Mezzogiorno”, 11 agosto 1992) e con esse insudiciata la loro memoria, il ricordo degli affetti più cari.
Si scrisse di “scempio”, di “profanazione”, ma anche di “ossa bruciate”. Le cappelle private devastate, i resti infine portati nei due ossari al nuovo cimitero sulla via del mare, ma femori e scapole furono sparsi nei campi, come concime, fatto “disdicevole” (dalle carte processuali) documentato da un ampio reportage.
Fatti mai rimossi dalla memoria popolare, cui nessuno può dirsi estraneo. Non la Chiesa extra moenia: “Sono solo ossa...”, avrebbe infatti minimizzato Mons. Tonino Bello, nato proprio qui: da 10 anni era vescovo di Molfetta, Ruvo, Giovinazzo e Terlizzi aggiravandosi fra le tombe in cerca diq quella del padre. Furiosa la replica del geometra Riccardo Coppola: “E allora prendi a colpi di zappa le ossa di tuo padre”.
La chiesa locale si comportò con leggerezza. Come la politica peggiore, mai assente dal paesaggio. Il sindaco dell'epoca, Rinaldo Rizzo, Dc, sindacalista Cisl (oggi presidente del Gal “Terra di Leuca”: con questi step nel cv si fa carriera), che ai cittadini arrabbiati per le ossa nei campi (e, si scrisse, pure nella “discarica comunale” omologando i resti umani ai rifiuti della nostra epoca truculenta), avrebbe ridacchiato: “Sono ossa di cani”.
Tutto inizia con la scadenza della donazione, datata 1929, sotto il podestà di Alessano Salvatore Zocco, da parte del Comune ai Padri Cappuccini, del suolo dove insiste il camposanto, una cappella, un giardino, un campo di calcio. Alla scadenza il municipio aveva di nuovo concesso l'area ai monaci (delibera del 15.07.1992).
Ma il turismo religioso è un business franco Imu, al centro e in periferia. Ecco l'idea della “foresteria”. Le parole, dice Nanni Moretti, sono “importanti” e ognuno le riempie del significato che vuole. Cosa s'intendeva per “foresteria” lo spiegò con qualche pudore in un'assemblea pubblica a Villa Potenza (è il 1992) il Padre provinciale giunto da Bari, sede della Provincia delle Puglie dei Frati Minori: “Un alberghetto”. E quindi, la destinazione di cui si era parlato per molto tempo, un convento di Clarisse Cappuccine (sostenuta dalla delibera del 30.12.1991) forse era stata messa in giro ad arte per confondere le acque: le Suore oggi vivono beate all'Armino, sulla via per Specchia.
L'estate 1992 fu molto calda. Al 15 giugno risale la delibera n. 27 che sancisce la “soppressione” del cimitero, al 18 agosto il ricorso dei “dolenti” (Marcello Torsello, Pietro Panico, Coppola) che la difesa del Comune (Nicola Stefanizzo) definisce “temerario”, accolto però dal pretore Angelo Sodo, che blocca i lavori “prima facie” e fa divieto a Comune e Frati “di esumare le spoglie dei congiunti e, comunque, dal compiere qualsiasi atto che costituisca 'vulnus' al sepolcro degli stessi”. Più chiaro di così... Al contempo, il prof. Smiraldo Piccinni, titolare della cappella Bello-Piccinni, con lettera del 10.08.1992, chiede al Comune “il rinnovo delle concessioni agli aventi diritto”. Nessuno lo ascolta.
Non è politicamente scorretto fare “alberghetti” o “foresterie”, spartani o a 5 stelle: Roma è piena, accolgono i pellegrini, sennò dormirebbero all'addiaccio fra i gatti del Colosseo. Scorretta è la location: si irrita le sensibilità, si calpesta la memoria dei morti, un valore non ancora relativizzato. Il cimitero è il luogo più caro all'immaginario di tante generazioni (nacque nel 1860, si inumò fino al 1960), riposano i resti mortali dei defunti per cui Mons. Forte raccomanda, e noi con lui, “senso del rispetto”.
Senza dare voce (ma per il Comune ci fu “massima pubblicità” e i parenti sapevano), ai primi di agosto, dal municipio parte una squadra di operai con l'ordine: “Date una ripulita”. Altra parola decodificabile soggettivamente. Cominciarono dalle cappelle di famiglia di pregiato stile architettonico del XIX secolo, con uso di pietra locale (Matine) e di Cursi, con preziosi fregi simbolici: l'orologio, il serpente che si morde la coda, lo scheletro sulla facciata. Alessano ha avuto un'aristocrazia e una borghesia il cui gusto estetico emerge anche nell'architettura funeraria.
Poi si armano di zappe e ruspe. Il Comune nega i “mezzi meccanici”, ma se ci fossero stati davvero avrebbero maciullato i resti delle sepolture a terra e magari qualche tomba sfuggita è ancora intonsa. Giura sulla presenza ai lavori ora del parroco, ora di un frate, ora del maresciallo Cc, ma nelle foto non si vedono. Le sepolture a terra sono quelle dei poveri, del popolo lavoratore (fra cui Ippazio Antonio, fratello di chi scrive, morto di pertosse nel 1954).
Senza saperlo, quegli avventizi formattarono secoli di storia di lotta di classe, da Spartaco a Di Vittorio: ricchi e poveri livellati: fatto rivoluzionario, che richiama alla mente la celebre poesia di Totò, “'A livella” e che, fosse vivo Marx, meriterebbe un saggio. Purtroppo non si potrebbe arricchirlo con le foto degli operai che, sotto un'afa opprimente, giocano con le “sculozze” (teschi) dei nobili e dei loro contadini come a basket: non si trovano.
E dopo i giochi sotto il sole, le ossa ora sono mescolate nei due “cisternoni” del nuovo cimitero dove giungono il 27 ottobre 1994. Recita il frontespizio: “Qui riposano nell'attesa della resurrezione i resti mortali dei nostri fratelli traslati dal vecchio cimitero”.
Un'interrogazione dell'on. Biagio Marzo, Psi, “Finisce in Parlamento la vicenda degli scavi al cimitero”, ancora Colella (“La Gazzetta del Mezzogiorno”, 30 agosto 1992) dà eco istituzionale agli “atti di vandalismo”, mentre inutilmente e ripetutamente i famigliari invocano “carità cristiana” (Piccinni nella suddetta lettera a don Gigi Ciardo, parroco e presidente dei lavori, al Vaticano, al Padre Provinciale dei Cappuccini, al pretore Sodo titolare a Nardò e Alessano, alle curie di Ugento e Molfetta).
Per il sindaco tutto avviene “nel pieno rispetto delle pratiche di pietà” e “le spoglie mortali sono state pietosamente riposte in apposite urne” (ma nelle foto si vedono i sacchi neri della spazzatura), mentre il 29 giugno 1992 si celebra una messa di suffragio a tutti i morti sfrattati.
Ecco cosa vede, in una visita, l'esperto di arte funeraria Antonio Mario Marzo, Dams di Bologna: “Mucchietti d'ossa nel giardino, buste di plastica colme di femori e teschi, ciuffi di capelli biondi, rossi o corvini trascinati dal vento, bare scoperchiate, brandelli di vestiti sparsi dappertutto”.
Forse l'afa annebbiò i cervelli: due anni dopo, autunno 1994, le ossa furono pietosamente portate in due tombe comuni dove, ironia della sorte, accanto si trova la tomba monumentale di don Tonino Bello, il cui dies natalis era avvenuto nell'aprile 1993.
La sensazione amara è che si fu più lealisti del Re: in fondo foresteria e vecchio cimitero avrebbero potuto convivere. E comunque, svela ancora Piccinni in un'altra missiva al Comune (15.09.1992) citando l'atto n. 5128/3582 del notaio G. Nielli, risalente al 17.01.1929, “I FF. MM. Cappuccini avrebbero avuto il possesso dell'annesso Cimitero, solo quando ed appena veniva a cessare l'uso e con esclusione delle sepolture private”. Quindi, a rigor di logica e in punta di diritto, il Comune avrebbe ceduto ciò che non era cedibile: le cappelle private sorte su suoli legalmente acquistati e de facto proprietà privata.
Per la storia: a giugno 1993 si votò, Rizzo fu scacciato, arrivò il nuovo sindaco, un giovane medico, Cosimo Del Casale, Pds. Che aveva cavalcato la rabbia popolare: Rizzo aveva parlato di “campagna scandalistica orchestrata da un gruppo politico rivale”, mentre il periodico “Incontri”, nel numero di settembre 1992, propose un dossier di 4 pp. a cura di A. M. Marzo, che riferendosi allo stile delle cappelle più belle (i Ronzi, i De Giosa, i Torsello, i Sangiovanni, i Bello-Piccinni, ecc.), parlò di “richiami alla simbologia della morte dell'antico Egitto”), ma giunto al potere silenziò tutto: e con la transumanza delle ossa si mise, è il caso si dire, una pietra tombale sullo scandalo.
Il municipio si scordò delle promesse fatte: aveva garantito (in ossequio al DPR. 285 del 10.09.1990, articolo 98) spazi adeguati, e gratuiti, nel nuovo cimitero per la ricostruzione delle cappelle di famiglia (alcune delle quali forse sono sopravvissute alla “ripulita”), che comunque ospitavano, a titolo di cortesia, defunti non registrati: usa (ma a qualcuno è stato dato). Anche perché, è il caso di ribadirlo, i suoli dove insistevano erano stati regolarmente pagati dai concessionari. Meccanismo di “compensazione” invocato come estrema ratio, che mai scattò, mentre i burocrati della Soprintendenza, a buoi lontani, chiusero la stalla invitando i frati a “non manomettere lo stato dei luoghi”.
Oggi, dietro la Chiesetta dei Cappuccini in piazza San Francesco, c'è una spianata di cemento sotto cui forse ci sono ancora tombe, o ossa finite nella malta. Alla “foresteria” ogni tanto bussa qualche pellegrino in crisi spirituale che cerca un luogo di pace e silenzio per meditare e ritrovare se stesso. Ma basta un nulla – le parole di un alto prelato - per rialzare il velo e far scattare il rewind su una delle pagine più buie della storia del paese, in cui la pietas, cristiana o laica, è stata calpestata con una superficialità che fa rabbrividire, macchiando la nostra reputazione presso i posteri.