Erano i 70/80 dell'altro secolo e una leggenda metropolitana narra che l'editrice Giulia Maria Mozzoni Crespi quando vedeva un giornalista del “Corriere della Sera” per strada, fermava l'auto e lo faceva salire. L'estate scorsa il giornale è stato scalato con quattro soldi da Urbano Cairo (per conto di Berlusconi e Giovanni Bazoli).
Tutti o quasi i giornali sono come ministeri attaccati alla greppia pubblica e se lo Stato smettesse di rifornirli di biada fresca chiuderebbero in una settimana. Non perché non ci sarebbero i potenziali lettori, solo che raccontano un mondo che non esiste più, usano una koinè disidratata e morta, non hanno un target di lettori, mentre ignorano i nuovi soggetti sociali sulla scena, i loro immaginari barocchi, i linguaggi contaminati: eppure il mercato sta proprio in quella direzione.
Ci vorrebbe un'altra rivoluzione come quella che dal piombo passò all'offset e poi al byte. Ma manca la materia prima, l'inventiva, la voglia di mettersi in gioco. Così vivacchiano allegando i libri in magazzino, attaccati alla politica, più vecchia di loro, e scambiano Renzi per uno statista, che invece il popolo ha appena ridimensionato al rango di “avventuriero” (G. Da Empoli), mentre un comico senza giornali, radio, tv e case editrici, con un blog scalcagnato che parla ai cuori e alle menti, sta per andare al governo del Paese.
Eppure un tempo non molto lontano il giornalismo era politico non sociologico. “Il cuore del potere”, di Raffaele Fiengo, Chiarelettere editore, Milano 2016, pp. 393, euro 16.15 (collana “Reverse”, introduzione di Alexander Stille) è la storia di 40 anni del giornale della borghesia del Nord, che si trasfigura in quella del Paese.
C'è tutto: dalla “zarina” Crespi a Spadolini, dal celebre articolo di Pasolini (settembre 1975, “Io so”, rimasto fermo nel cassetto del direttore Piero Ottone per 40 giorni), all'addio stizzoso di Montanelli (che poi tornerà vent'anni dopo riaprendo la famosa “Stanza”), da Rizzoli “prestanome” che entra in via Solferino con i soldi prestati all'intervista di un Maurizio Costanzo incappucciato a Licio Gelli (già confezionata: dove? A villa Wanda?) e l'olezzo della P2 in via Solferino, e poi Agnelli che lo regala a Romiti (come tfr dalla Fiat, “La garanzia dell'indipendenza del Corriere della Sera sono io!”), passando per le bandiere rosse sui tetti del palazzo, la “guerra” di D'Alema, il licenziamento di De Bortoli nel 2003, il primo, il secondo nel 2015 per mano di Renzi dopo un editoriale dove scrisse che il suo governo aveva uno sfondo massonico.
“Aspirante capopopolo” e “pericoloso sovversivo”, Fiengo ci consegna un documento straordinario, a futura memoria, di un giornale odoroso di piombo e di passione etica. E' un testimone appassionato, coinvolto, che sa leggere quel che accade dentro e fuori la redazione, i fatti e gli interessi nell'ombra, palesi e carsici. Intuisce che i giornalisti non possono ridursi al ruolo di convitati di pietra, debbono assumersi le loro responsabilità storiche e crea la Società dei Redattori cui aderiscono decine di colleghi e che è più agile di un sindacato ingessato e a tratti compromesso. Scava nel background, il sottosuolo, la carne viva del giornale: capisce che dalla libertà di stampa passa la vita stessa della democrazia, il livello di civiltà che il paese s'è dato, la vita e i diritti dei cittadini ignari.
Lo stile didascalico, divulgativo, rende il saggio possente, lo trasfigura in un documento storico ma anche antropologico e sociologico utile a capire cos'è il potere e cos'è il potere della parola, del segno scritto. Ottimo come regalo di Natale in tempi di cloroformio sparso ovunque senza pudore che ha fatto strage di canarini; se solo ce ne rendessimo conto...