di LIVALCA - Man mano che procedevo nella lettura dei racconti di Sergio D’Amaro, pubblicati da Besa, con un titolo eloquente e pur oscuro ‘LA CASA DEGLI OGGETTI PARLANTI’, il mio pensiero finiva sempre al dottor Anton Pavlovic Cechov che, partendo da racconti umoristici, approdò all’ultimo suo capolavoro ‘IL Giardino dei Ciliegi’ (La storia di una vendita all’asta di un magnifico giardino di ciliegi da parte di proprietari che consideravano l’evento un irreparabile declino. Il nuovo proprietario farà rifiorire la proprietà testimoniando che, dopo le rovine e la caduta di illusioni, la vita riparte sempre con nuove azioni).
Devo ammettere che completata la mia prima velocissima, supersonica lettura mi ricordavo solo che un certo signor Perfectig (impossibile scomodare nomen omen senza chiedere numi all’autore) ‘…rimise la sua torcia nel cassetto di un mobile abbandonato lì da trent’anni’. Un vuoto di memoria, da parte mia, dovuto forse all’età non più in grado di reggere ritmi stressanti, ma con l’arroganza e l’ostinazione tipica delle persone nate tra il ’48 e il ’52 - magari sotto il segno zodiacale del leone - ho provato a riportare alla luce oggetti e sentori percepiti, ma non ancora assimilati dopo la rapida e lieve lettura. Dalla copertina rivista in maniera più completa ho scoperto che la collana, in cui il testo è stato pubblicato, si chiama NADIR (punto della sfera celeste situato sulla verticale dell’osservatore e direttamente sotto i suoi piedi) che, scritto tutto in maiuscolo, mi fa pensare al sovrano afghano NADIR KHAN o al sovrano persiano NADIR SHAH, il primo ricordato come illuminato modernizzatore, l’altro come dispotico amministratore, ma entrambi morti… assassinati. Con un colto, ma pur sempre aleatorio, volo pindarico possiamo pensare a ‘Zio Vanja’ di Cechov? Dalla copertina sono passato all’interno e mi sono visto costretto a leggere per la prima volta l’introduzione stilata dall’autore (i miei collaboratori sanno che non leggo mai le introduzioni dei libri redatte dagli autori… forse perché io scrivo quasi tutte quelle firmate dai nostri autori) e mi sono soffermato sulla riflessione ‘…il sospetto che il passato non sia mai davvero passato’ - sul ‘mai davvero’ potrei scrivere un racconto! - che mi ha fatto pensare al “passato è un prologo” che fino a qualche anno fa attribuivo a Livalca, invece è di Shakespeare almeno per anzianità di pensiero.
Altra frase che mi ha colpito in questa brevissima ma vissuta introduzione “…quattordici oggetti immiseriti dalla dimenticanza…” e poi il colpo finale - tipico della perfidia di coloro che aspiravano a nascere leoni ed invece devono accontentarsi di tutte le manie di persecuzione che affliggono i cancerini nati nei primi giorni di luglio - in cui D’Amaro scaglia l’affondo con cui rivela la sua ispirazione ‘…componendosi in un inedito SPOON RIVER…’. Bene l’uomo nato in quella fucina di ‘scienziati’ che si chiama San Marco in Lamis - paese in cui forse solo nelle scuole esistono i cori perché appena frequentano le superiori i ragazzi diventano solitari ‘solisti’ - evita di parlarci dell’antologia che nel 1915 il poeta statunitense Edgar Lee Master pubblicò con questo titolo. SPOON RIVER è una raccolta di poesie, in forma di epitaffio, in cui ogni testo narra la vita di una persona sepolta in un immaginario cimitero. Mi permetto di consigliare ai nostri lettori più esigenti la traduzione di Fernanda Pivano, forse allo stesso Sergio che sta pensando che se avessi letto la sua introduzione non avrei scomodato Cechov. Errato sei uno stacanovista cechoviano a tua insaputa, proprio per questo in grado di poter affermare ‘…è sufficiente un grammo di sensibilità per apprezzarne la voce che viene dal passato’.
Non solo per deformazione professionale devo dire che il racconto che mi ha ‘annichilito’, per sontuosità di descrizione e precisione di linguaggio industriale, è quello dedicato al miracolo italiano di Adriano Olivetti da Ivrea. La ‘Lettera 32’, oggi cimelio, non è mai stata un oggetto senza vita, ma un compagno di viaggio, a volte più sensibile di tante belle figliole insensibili al nostro fascino poetico; su quei tasti è passata la storia del mondo, ora affidata ad Hard. Orfeo Isolini, protagonista del racconto dedicato alla storica macchina da scrivere, è lo stesso D’Amaro - medico mancato non per carenza di vocazione, ma perché sapeva che era impossibile resistere al fascino dello scrivere e avere il coraggio di Cechov che lasciò la professione per dedicarsi alla sua inclinazione - che si considera scrittore poco considerato…come avviene ne ‘Il Gabbiano’ di CECHOV dove le delusioni d’amore e la sfiducia nelle proprie capacità letterarie dell’aspirante scrittore Treplev prendono il sopravvento sull’intera vicenda. La prima della commedia ‘Il Gabbiano’ fu un tonfo clamoroso, cui fece seguito qualche anno dopo uno strepitoso successo della pièce (Sergio non è vero che il successo genera stima, ma anche il contrario…è vero).
D’Amaro avrebbe potuto scrivere 14 libri, invece dei 14 brevi racconti, ma lui è asciutto per natura: per me questa sintesi è frutto di duro lavoro di lima, dove non trovi un aggettivo superfluo con il limite voluto - per crudeltà o narcisismo? - che, quando ti impossessi della storia, lui la tronca e mette il punto. Qualora fosse un dono frutto di doti naturali, dovremmo pensare al vocabolo ripetuto recentemente in maniera ossessiva dal vicepresidente della Camera dei Deputati Roberto Giachetti e ritirarci, in meditato silenzio, in…camera oscura.
Appena possibile leggerò, sarebbe offensivo per me dire rileggerò, tutto quello che il direttore responsabile di ‘Frontiere’ vuol trasmettere con i suoi oggetti tramutati in lingue parlanti , ma mi basta quella intervista a Salvatore Adamo, sulla rivista innanzi citata, per riportarlo fra i ragazzi che a metà anni sessanta iniziavano con il ‘Non mi tenere il broncio’ per passare tutta la ‘Notte’ ‘ Con una ciocca di capelli’ in mano per il ‘Perduto amor ‘ di aver ‘Affida(to) una lacrima al vento’, mentre fuori ‘Cadeva la neve’.
Per Cechov: ‘Una brava persona si vergogna anche davanti a un cane’, per cui, caro D’Amaro, il pudore con cui ci hai voluto raccontare il tuo vissuto è figlio di quella pelle dell’anima che non tutti sappiamo di possedere, ma che, appena sfiorata, prende forma e rivendica il suo diritto non solo ad esistere, ma a ravvivare la presenza dando forma agli oggetti che hanno scandito i giorni, mesi e anni della nostra vita.
L’uomo che sa tutto su Carlo Levi - amico apprezza la mia ferma volontà di tenere ‘ il torinese del Sud’ lontano dalle mie farneticazioni - ci ricorda, a modo suo, che la vita è un’avventura e l’avventura, spesso, possiede la voce di un oggetto…o quella di ‘un giardino di ciliegi’.
Devo ammettere che completata la mia prima velocissima, supersonica lettura mi ricordavo solo che un certo signor Perfectig (impossibile scomodare nomen omen senza chiedere numi all’autore) ‘…rimise la sua torcia nel cassetto di un mobile abbandonato lì da trent’anni’. Un vuoto di memoria, da parte mia, dovuto forse all’età non più in grado di reggere ritmi stressanti, ma con l’arroganza e l’ostinazione tipica delle persone nate tra il ’48 e il ’52 - magari sotto il segno zodiacale del leone - ho provato a riportare alla luce oggetti e sentori percepiti, ma non ancora assimilati dopo la rapida e lieve lettura. Dalla copertina rivista in maniera più completa ho scoperto che la collana, in cui il testo è stato pubblicato, si chiama NADIR (punto della sfera celeste situato sulla verticale dell’osservatore e direttamente sotto i suoi piedi) che, scritto tutto in maiuscolo, mi fa pensare al sovrano afghano NADIR KHAN o al sovrano persiano NADIR SHAH, il primo ricordato come illuminato modernizzatore, l’altro come dispotico amministratore, ma entrambi morti… assassinati. Con un colto, ma pur sempre aleatorio, volo pindarico possiamo pensare a ‘Zio Vanja’ di Cechov? Dalla copertina sono passato all’interno e mi sono visto costretto a leggere per la prima volta l’introduzione stilata dall’autore (i miei collaboratori sanno che non leggo mai le introduzioni dei libri redatte dagli autori… forse perché io scrivo quasi tutte quelle firmate dai nostri autori) e mi sono soffermato sulla riflessione ‘…il sospetto che il passato non sia mai davvero passato’ - sul ‘mai davvero’ potrei scrivere un racconto! - che mi ha fatto pensare al “passato è un prologo” che fino a qualche anno fa attribuivo a Livalca, invece è di Shakespeare almeno per anzianità di pensiero.
Altra frase che mi ha colpito in questa brevissima ma vissuta introduzione “…quattordici oggetti immiseriti dalla dimenticanza…” e poi il colpo finale - tipico della perfidia di coloro che aspiravano a nascere leoni ed invece devono accontentarsi di tutte le manie di persecuzione che affliggono i cancerini nati nei primi giorni di luglio - in cui D’Amaro scaglia l’affondo con cui rivela la sua ispirazione ‘…componendosi in un inedito SPOON RIVER…’. Bene l’uomo nato in quella fucina di ‘scienziati’ che si chiama San Marco in Lamis - paese in cui forse solo nelle scuole esistono i cori perché appena frequentano le superiori i ragazzi diventano solitari ‘solisti’ - evita di parlarci dell’antologia che nel 1915 il poeta statunitense Edgar Lee Master pubblicò con questo titolo. SPOON RIVER è una raccolta di poesie, in forma di epitaffio, in cui ogni testo narra la vita di una persona sepolta in un immaginario cimitero. Mi permetto di consigliare ai nostri lettori più esigenti la traduzione di Fernanda Pivano, forse allo stesso Sergio che sta pensando che se avessi letto la sua introduzione non avrei scomodato Cechov. Errato sei uno stacanovista cechoviano a tua insaputa, proprio per questo in grado di poter affermare ‘…è sufficiente un grammo di sensibilità per apprezzarne la voce che viene dal passato’.
Non solo per deformazione professionale devo dire che il racconto che mi ha ‘annichilito’, per sontuosità di descrizione e precisione di linguaggio industriale, è quello dedicato al miracolo italiano di Adriano Olivetti da Ivrea. La ‘Lettera 32’, oggi cimelio, non è mai stata un oggetto senza vita, ma un compagno di viaggio, a volte più sensibile di tante belle figliole insensibili al nostro fascino poetico; su quei tasti è passata la storia del mondo, ora affidata ad Hard. Orfeo Isolini, protagonista del racconto dedicato alla storica macchina da scrivere, è lo stesso D’Amaro - medico mancato non per carenza di vocazione, ma perché sapeva che era impossibile resistere al fascino dello scrivere e avere il coraggio di Cechov che lasciò la professione per dedicarsi alla sua inclinazione - che si considera scrittore poco considerato…come avviene ne ‘Il Gabbiano’ di CECHOV dove le delusioni d’amore e la sfiducia nelle proprie capacità letterarie dell’aspirante scrittore Treplev prendono il sopravvento sull’intera vicenda. La prima della commedia ‘Il Gabbiano’ fu un tonfo clamoroso, cui fece seguito qualche anno dopo uno strepitoso successo della pièce (Sergio non è vero che il successo genera stima, ma anche il contrario…è vero).
D’Amaro avrebbe potuto scrivere 14 libri, invece dei 14 brevi racconti, ma lui è asciutto per natura: per me questa sintesi è frutto di duro lavoro di lima, dove non trovi un aggettivo superfluo con il limite voluto - per crudeltà o narcisismo? - che, quando ti impossessi della storia, lui la tronca e mette il punto. Qualora fosse un dono frutto di doti naturali, dovremmo pensare al vocabolo ripetuto recentemente in maniera ossessiva dal vicepresidente della Camera dei Deputati Roberto Giachetti e ritirarci, in meditato silenzio, in…camera oscura.
Appena possibile leggerò, sarebbe offensivo per me dire rileggerò, tutto quello che il direttore responsabile di ‘Frontiere’ vuol trasmettere con i suoi oggetti tramutati in lingue parlanti , ma mi basta quella intervista a Salvatore Adamo, sulla rivista innanzi citata, per riportarlo fra i ragazzi che a metà anni sessanta iniziavano con il ‘Non mi tenere il broncio’ per passare tutta la ‘Notte’ ‘ Con una ciocca di capelli’ in mano per il ‘Perduto amor ‘ di aver ‘Affida(to) una lacrima al vento’, mentre fuori ‘Cadeva la neve’.
Per Cechov: ‘Una brava persona si vergogna anche davanti a un cane’, per cui, caro D’Amaro, il pudore con cui ci hai voluto raccontare il tuo vissuto è figlio di quella pelle dell’anima che non tutti sappiamo di possedere, ma che, appena sfiorata, prende forma e rivendica il suo diritto non solo ad esistere, ma a ravvivare la presenza dando forma agli oggetti che hanno scandito i giorni, mesi e anni della nostra vita.
L’uomo che sa tutto su Carlo Levi - amico apprezza la mia ferma volontà di tenere ‘ il torinese del Sud’ lontano dalle mie farneticazioni - ci ricorda, a modo suo, che la vita è un’avventura e l’avventura, spesso, possiede la voce di un oggetto…o quella di ‘un giardino di ciliegi’.