di FRANCESCO GRECO - Panettone? No, grazie! In Puglia abbiamo le nostre “pìttele”, o “pìttule” a seconda dell'area geografica. A Bari le chiamano “pèttole”. Ma, si sa, noi leccesi consideriamo i baresi degli antidepressivi antropologici.
Le “pìttele” sono nate in Salento, ma siccome i baresi sono stati capaci persino di rubarsi un santo - e non avendo un protettore hanno nominato tale San Nicola di Mira, patrono dei single - ci hanno sottratto anche quelle. Pazienza! Tranquilla, Bari: a noi i calzoni e le sgagliozze non interessano punto: troppo grassi, bombe per il colesterolo.
Tira dunque una brutta aria per panettoni e pandori: proprio quando gli inglesi li hanno scoperti, qui al Sud li guardiamo indifferenti. Il ragazzo del centro commerciale del rione – gestito da due sorelle belle toste - si lamenta: le pile quest'anno restano intonse, o quasi. C'è una fuga, forse è la crisi che rende tutti più oculati, o forse ci si rifugia nel passato. La classe media non è poi così alle pezze e per far vedere che al riguardo si scrivono un sacco di amenità, ordina in pasticceria il panettone/pandoro artigianale, ingredienti a km. zero. Noialtri precari della vita aspettiamo i saldi dopo le feste per portarne a casa ai bambini 2 al prezzo di 1. Li useranno per la colazione. Le “pìttele” sono dunque il trend 2016: cosa sono? Ce lo spiega lo storico Gino Meuli ne “I dialetti del Capo di Leuca”, Grafiche Panico, 2004: “Frittelle di pasta a forma di pallina, fatte con farina lievitata, condite a volte con miele, mangiate sotto le feste natalizie”. Esse sono il “manifesto”, la trasfigurazione del momento storico confuso che attraversiamo. Siamo nel pantano: la crisi da derivati e finanza creativa è alle spalle, il futuro non si vede: buffo, no?
Le “pittele” forse significano bisogno di identità, di memoria, ancoraggio alle radici relativizzate dalla globalizzazione, ma anche di passato, quello migliore, odori (olio che frigge), sapori antichi.
Nel rione dove vivo, alle Muraje (Muraglie, forse i cinesi l'hanno copiata da qui dove a sud-est si vede l'Albania e le isole greche, Corfù e Fanos), è rimasta qualche vecchia che la vigilia di Natale le fa come ai vecchi tempi.
Nel rione vicino, Terra du Mulu (che guarda a sud, al Capo di Leuca), però, sono più brave: ci sono due vecchie (a loro piace essere chiamate così) che sono famose in tutto il circondario, perché la Givoannina e la Vittoria (che sono cognate) le fanno come una volta già all'Immacolata e ricevono ordinazioni anche da lontano. L'aria del rione è impregnata dell'olio della frittura, extravergine d'oliva, ovvio, pure quest'anno che la stagione è stata avara (produzione giù del 40%).
Le “pittele” sono un rito arcaico, coinvolgevano ogni componente delle famiglie numerose, patriarcali di un tempo. La mattina della vigilia si preparava la pasta, si metteva il lievito e si lasciava riposare tutto sotto una coperta calda.
A sera si accendeva il fuoco, si impastavano e si friggevano. Al fuoco hanno tutto un altro sapore. Oltre che col miele, come dice il maestro Meuli, si condivano con cavoli, cicorie, rape, alla pizzaiola (con cappero e pomodoro), il peperone, il baccalà. O anche senza niente dentro quando tutto questo si esauriva e c'era ancora pasta. Vanno mangiate bollenti, croccanti, appena uscite dalla pentola. Senza le “pìttele” non è Natale.
E nemmeno senza i film in bianco e nero di Totò, di Charlot, le commedie di Eduardo che ti facevano respirare l'aria del Natale: oggi le tv non li programmano più, grondano rubbish anche, soprattutto sotto le feste. Un segno dei tempi. Comunque la pensiate...
AUGURI AI LETTORI DEL GDP!
Le “pìttele” sono nate in Salento, ma siccome i baresi sono stati capaci persino di rubarsi un santo - e non avendo un protettore hanno nominato tale San Nicola di Mira, patrono dei single - ci hanno sottratto anche quelle. Pazienza! Tranquilla, Bari: a noi i calzoni e le sgagliozze non interessano punto: troppo grassi, bombe per il colesterolo.
Tira dunque una brutta aria per panettoni e pandori: proprio quando gli inglesi li hanno scoperti, qui al Sud li guardiamo indifferenti. Il ragazzo del centro commerciale del rione – gestito da due sorelle belle toste - si lamenta: le pile quest'anno restano intonse, o quasi. C'è una fuga, forse è la crisi che rende tutti più oculati, o forse ci si rifugia nel passato. La classe media non è poi così alle pezze e per far vedere che al riguardo si scrivono un sacco di amenità, ordina in pasticceria il panettone/pandoro artigianale, ingredienti a km. zero. Noialtri precari della vita aspettiamo i saldi dopo le feste per portarne a casa ai bambini 2 al prezzo di 1. Li useranno per la colazione. Le “pìttele” sono dunque il trend 2016: cosa sono? Ce lo spiega lo storico Gino Meuli ne “I dialetti del Capo di Leuca”, Grafiche Panico, 2004: “Frittelle di pasta a forma di pallina, fatte con farina lievitata, condite a volte con miele, mangiate sotto le feste natalizie”. Esse sono il “manifesto”, la trasfigurazione del momento storico confuso che attraversiamo. Siamo nel pantano: la crisi da derivati e finanza creativa è alle spalle, il futuro non si vede: buffo, no?
Le “pittele” forse significano bisogno di identità, di memoria, ancoraggio alle radici relativizzate dalla globalizzazione, ma anche di passato, quello migliore, odori (olio che frigge), sapori antichi.
Nel rione dove vivo, alle Muraje (Muraglie, forse i cinesi l'hanno copiata da qui dove a sud-est si vede l'Albania e le isole greche, Corfù e Fanos), è rimasta qualche vecchia che la vigilia di Natale le fa come ai vecchi tempi.
Nel rione vicino, Terra du Mulu (che guarda a sud, al Capo di Leuca), però, sono più brave: ci sono due vecchie (a loro piace essere chiamate così) che sono famose in tutto il circondario, perché la Givoannina e la Vittoria (che sono cognate) le fanno come una volta già all'Immacolata e ricevono ordinazioni anche da lontano. L'aria del rione è impregnata dell'olio della frittura, extravergine d'oliva, ovvio, pure quest'anno che la stagione è stata avara (produzione giù del 40%).
Le “pittele” sono un rito arcaico, coinvolgevano ogni componente delle famiglie numerose, patriarcali di un tempo. La mattina della vigilia si preparava la pasta, si metteva il lievito e si lasciava riposare tutto sotto una coperta calda.
A sera si accendeva il fuoco, si impastavano e si friggevano. Al fuoco hanno tutto un altro sapore. Oltre che col miele, come dice il maestro Meuli, si condivano con cavoli, cicorie, rape, alla pizzaiola (con cappero e pomodoro), il peperone, il baccalà. O anche senza niente dentro quando tutto questo si esauriva e c'era ancora pasta. Vanno mangiate bollenti, croccanti, appena uscite dalla pentola. Senza le “pìttele” non è Natale.
E nemmeno senza i film in bianco e nero di Totò, di Charlot, le commedie di Eduardo che ti facevano respirare l'aria del Natale: oggi le tv non li programmano più, grondano rubbish anche, soprattutto sotto le feste. Un segno dei tempi. Comunque la pensiate...
AUGURI AI LETTORI DEL GDP!
Ho recuperato solo adesso l'articolo. Eh si! la Giovannina e la Vittoria sono proprio brave. Ogni tanto provo a farle anch'io qui a Milano ma è inutile. Ci vuole il camino e la pentola. e confesso che mi manca nel Natale, anche eduardo. Un saluto
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