Sant’Antonio Abate, tra storia e leggenda, dà inizio al Carnevale
di VITTORIO POLITO – Il 17 gennaio di ogni anno, in molti comuni italiani, si benedicono gli animali. Qualcuno sostiene che in questa notte gli animali possano addirittura parlare (?), ma da dove trae origine questa festa? Perché tanta importanza ai… maiali?
Con la celebrazione della festa di Sant’Antonio Abate (Sand’Andè per i baresi) inizia, il 17 gennaio di ogni anno, il periodo dedicato al Carnevale. Il Santo di cui parliamo a soli vent’anni, abbandonò ogni cosa per seguire il consiglio di Gesù: «Se vuoi essere perfetto, va’ vendi ciò che hai…», rifugiandosi così in una zona deserta dell’Egitto tra antiche tombe abbandonate e successivamente sulle rive del Mar Rosso, dove visse per ottant’anni da eremita.
L’esperienza del “deserto”, in senso reale o figurato, è ormai un metodo di vita ascetica, fatto di austerità, di sacrificio e di estrema solitudine. S. Antonio ne fu l’esempio più insigne e stimolante. Infatti, pur senza alcuna regola monastica, esercitò un grande influsso dapprima tra i suoi conterranei e poi in tutta la Chiesa.
A lui è associato il bastone a T, tau, 19ª lettera dell’alfabeto greco, e un maiale. Cosa c’entra il maiale, che per i cristiani era simbolo del male? Secondo gli studiosi all’inizio si trattava di un cinghiale, attributo del dio celtico Lug, dio del gioco e della divinazione, venerato in Gallia a cui erano consacrati cinghiali e maiali. Gli stessi sacerdoti venivano chiamati “Grandi Cinghiali Bianchi”, mentre il dio Lug regnava anche sugli inferi. L’emblema del cinghiale appariva anche sugli stendardi e sugli elmi dei celti. In realtà il maiale rappresenta simbolicamente il maligno e le seduzioni che i piaceri della carne provocano.
Vito Lozito, nel suo volume “Agiografia, Magia, Superstizione” (Levante Editori), fa una esauriente descrizione del protettore degli animali, nato intorno al 250 a Coman in Egitto e morto ultracentenario nel 356. Negli ultimi anni accolse presso di sé due monaci che l’accudirono nell’estrema vecchiaia; morì a 106 anni, il 17 gennaio del 356 e fu seppellito in un luogo segreto.
Nel 561 fu scoperto il suo sepolcro e le reliquie cominciarono un lungo viaggio nel tempo, da Alessandria a Costantinopoli, fino in Francia nell’XI secolo a Motte-Saint-Didier, dove fu costruita una chiesa in suo onore.
In questo luogo per venerarne le reliquie, affluivano folle di malati, soprattutto di “ergotismo” (herpes zoster, cosiddetto “fuoco di S. Antonio”), causato dall’avvelenamento di un fungo presente nella segala, usata all’epoca per fare il pane.
I monaci Antoniani, infatti, consigliavano di «implorare il patrocinio del Santo e di cospargere le parti malate con il vino nel quale erano state immerse le sacre reliquie». In epoche successive si adoperò il grasso di maiale che, posto sull’immaginetta del Santo, veniva portato dai monaci all’ammalato e usato per guarire le ferite del “fuoco sacro”. In questo modo era completa la figura di Sant’Antonio abate, padrone del fuoco, vittorioso sulle tentazioni del demonio, del male e protettore del maiale.
Il morbo era conosciuto sin dall’antichità come ‘ignis sacer’ per il bruciore che provocava. Per gli ammalati che giungevano da lontano, si costruì un ospedale e una Confraternita di religiosi, l’antico Ordine ospedaliero degli ‘Antoniani’; il cui villaggio prese il nome di ‘Saint-Antoine de Viennois’. Il papa accordò loro il privilegio di allevare maiali per uso proprio e a spese della comunità, per cui i porcellini potevano circolare liberamente fra cortili e strade, nessuno li toccava se portavano una campanella di riconoscimento. Tale disposizione risultava necessaria dal momento che i maiali, girando per villaggi e città, provocavano numerosi danni.
L’allevamento vero e proprio, tuttavia, era svolto per conto dei monaci, gratuitamente e per devozione dei contadini, i quali, ad opera compiuta, ricevevano protezione per se stessi e per i lavori da effettuare durante il ciclo annuale di produzione. Il maiale in questo modo era “sacralizzato” e perdeva la sua connotazione demoniaca, dal momento che diventava il tramite più vicino perché le masse contadine ottenessero rassicurazione e promesse di fecondità e fertilità.
Fu così che Sant’Antonio Abate divenne il protettore degli animali ed una testimonianza di festeggiamento romano ce l’ha lasciata il poeta tedesco Goethe, che in un suo diario parla del 17 gennaio 1787, giorno sereno e tiepido dopo una notte che aveva gelato, nel quale poté assistere alla consacrazione degli animali domestici, con cavalli e muli infiocchettati e benedetti con copiose aspersioni d’acqua santa.
A Bari da qualche anno la benedizione degli animali, domestici e da cortile, si svolge sulla Piazzetta antistante la Chiesa di Sant’Anna, via Palazzo di Città, nel centro storico.
A Bari da qualche anno la benedizione degli animali, domestici e da cortile, si svolge sulla Piazzetta antistante la Chiesa di Sant’Anna, via Palazzo di Città, nel centro storico.
Ed infine qualche curiosità. In alcune località delle Marche, la festa di Sant’Antonio si festeggia anche con balli popolari, specie con il saltarello, accompagnato da corni e tamburi sino a tarda notte. Anche il fuoco è considerato parte integrante della festa. Secondo alcuni i riti attorno alla figura del Santo testimoniano un forte legame con le culture precristiane, soprattutto quella celtica e druidica. Una festa dunque di origini antiche finalizzata a sconfiggere il male e le malattie.
Una delle feste più belle si svolge a Soriano nel Cimino, nel Lazio, con la benedizione degli animali e la sfilata nel centro della cittadina del viterbese del carro del “Signore della Festa”. A Bagnaia, sempre nel viterbese, viene accesa una enorme pira, alta otto metri per circa 30 di diametro, che brucia per tutta la notte tra il 16 e il 17 gennaio. E, sempre la sera del 16 gennaio, due enormi torcioni di cinque metri di altezza, vengono accesi tradizionalmente a Collelongo (L’Aquila).
In Sardegna si fanno enormi falò, ma il fuoco più grande viene acceso a Novoli, in Puglia, denominata “la Fòcara” alta 25 metri, per 20 metri di diametro, ed eretto con migliaia di fascine di tralci di vite arrivate da tutta la regione.
Con la celebrazione della festa di Sant’Antonio Abate (Sand’Andè per i baresi) inizia, il 17 gennaio di ogni anno, il periodo dedicato al Carnevale. Il Santo di cui parliamo a soli vent’anni, abbandonò ogni cosa per seguire il consiglio di Gesù: «Se vuoi essere perfetto, va’ vendi ciò che hai…», rifugiandosi così in una zona deserta dell’Egitto tra antiche tombe abbandonate e successivamente sulle rive del Mar Rosso, dove visse per ottant’anni da eremita.
L’esperienza del “deserto”, in senso reale o figurato, è ormai un metodo di vita ascetica, fatto di austerità, di sacrificio e di estrema solitudine. S. Antonio ne fu l’esempio più insigne e stimolante. Infatti, pur senza alcuna regola monastica, esercitò un grande influsso dapprima tra i suoi conterranei e poi in tutta la Chiesa.
A lui è associato il bastone a T, tau, 19ª lettera dell’alfabeto greco, e un maiale. Cosa c’entra il maiale, che per i cristiani era simbolo del male? Secondo gli studiosi all’inizio si trattava di un cinghiale, attributo del dio celtico Lug, dio del gioco e della divinazione, venerato in Gallia a cui erano consacrati cinghiali e maiali. Gli stessi sacerdoti venivano chiamati “Grandi Cinghiali Bianchi”, mentre il dio Lug regnava anche sugli inferi. L’emblema del cinghiale appariva anche sugli stendardi e sugli elmi dei celti. In realtà il maiale rappresenta simbolicamente il maligno e le seduzioni che i piaceri della carne provocano.
Vito Lozito, nel suo volume “Agiografia, Magia, Superstizione” (Levante Editori), fa una esauriente descrizione del protettore degli animali, nato intorno al 250 a Coman in Egitto e morto ultracentenario nel 356. Negli ultimi anni accolse presso di sé due monaci che l’accudirono nell’estrema vecchiaia; morì a 106 anni, il 17 gennaio del 356 e fu seppellito in un luogo segreto.
Nel 561 fu scoperto il suo sepolcro e le reliquie cominciarono un lungo viaggio nel tempo, da Alessandria a Costantinopoli, fino in Francia nell’XI secolo a Motte-Saint-Didier, dove fu costruita una chiesa in suo onore.
In questo luogo per venerarne le reliquie, affluivano folle di malati, soprattutto di “ergotismo” (herpes zoster, cosiddetto “fuoco di S. Antonio”), causato dall’avvelenamento di un fungo presente nella segala, usata all’epoca per fare il pane.
I monaci Antoniani, infatti, consigliavano di «implorare il patrocinio del Santo e di cospargere le parti malate con il vino nel quale erano state immerse le sacre reliquie». In epoche successive si adoperò il grasso di maiale che, posto sull’immaginetta del Santo, veniva portato dai monaci all’ammalato e usato per guarire le ferite del “fuoco sacro”. In questo modo era completa la figura di Sant’Antonio abate, padrone del fuoco, vittorioso sulle tentazioni del demonio, del male e protettore del maiale.
Il morbo era conosciuto sin dall’antichità come ‘ignis sacer’ per il bruciore che provocava. Per gli ammalati che giungevano da lontano, si costruì un ospedale e una Confraternita di religiosi, l’antico Ordine ospedaliero degli ‘Antoniani’; il cui villaggio prese il nome di ‘Saint-Antoine de Viennois’. Il papa accordò loro il privilegio di allevare maiali per uso proprio e a spese della comunità, per cui i porcellini potevano circolare liberamente fra cortili e strade, nessuno li toccava se portavano una campanella di riconoscimento. Tale disposizione risultava necessaria dal momento che i maiali, girando per villaggi e città, provocavano numerosi danni.
L’allevamento vero e proprio, tuttavia, era svolto per conto dei monaci, gratuitamente e per devozione dei contadini, i quali, ad opera compiuta, ricevevano protezione per se stessi e per i lavori da effettuare durante il ciclo annuale di produzione. Il maiale in questo modo era “sacralizzato” e perdeva la sua connotazione demoniaca, dal momento che diventava il tramite più vicino perché le masse contadine ottenessero rassicurazione e promesse di fecondità e fertilità.
Fu così che Sant’Antonio Abate divenne il protettore degli animali ed una testimonianza di festeggiamento romano ce l’ha lasciata il poeta tedesco Goethe, che in un suo diario parla del 17 gennaio 1787, giorno sereno e tiepido dopo una notte che aveva gelato, nel quale poté assistere alla consacrazione degli animali domestici, con cavalli e muli infiocchettati e benedetti con copiose aspersioni d’acqua santa.
A Bari da qualche anno la benedizione degli animali, domestici e da cortile, si svolge sulla Piazzetta antistante la Chiesa di Sant’Anna, via Palazzo di Città, nel centro storico.
A Bari da qualche anno la benedizione degli animali, domestici e da cortile, si svolge sulla Piazzetta antistante la Chiesa di Sant’Anna, via Palazzo di Città, nel centro storico.
Ed infine qualche curiosità. In alcune località delle Marche, la festa di Sant’Antonio si festeggia anche con balli popolari, specie con il saltarello, accompagnato da corni e tamburi sino a tarda notte. Anche il fuoco è considerato parte integrante della festa. Secondo alcuni i riti attorno alla figura del Santo testimoniano un forte legame con le culture precristiane, soprattutto quella celtica e druidica. Una festa dunque di origini antiche finalizzata a sconfiggere il male e le malattie.
Una delle feste più belle si svolge a Soriano nel Cimino, nel Lazio, con la benedizione degli animali e la sfilata nel centro della cittadina del viterbese del carro del “Signore della Festa”. A Bagnaia, sempre nel viterbese, viene accesa una enorme pira, alta otto metri per circa 30 di diametro, che brucia per tutta la notte tra il 16 e il 17 gennaio. E, sempre la sera del 16 gennaio, due enormi torcioni di cinque metri di altezza, vengono accesi tradizionalmente a Collelongo (L’Aquila).
In Sardegna si fanno enormi falò, ma il fuoco più grande viene acceso a Novoli, in Puglia, denominata “la Fòcara” alta 25 metri, per 20 metri di diametro, ed eretto con migliaia di fascine di tralci di vite arrivate da tutta la regione.
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