di FRANCESCO GRECO - Ogni artista che ha vissuto la sua parabola esistenziale sotto la tirannia d’ogni colore, benché spesso sostenuta dalla vigliaccheria dei popoli, ha riversato la propria biografia nell’opera. E’ ontologico, fatale che accada.
Max Aub (1903-1972, giornalista, poeta, narratore, drammaturgo, sceneggiatore) non sfugge al mantra. Tutto quel che ha scritto (i romanzi de “Il labirinto magico”, ma anche opere teatrali, poesie sulla sua rivista, articoli politici, ecc.) è cosparso di passione civile, di etica politica, di coerenza.
La sua opera è in stretta osmosi con una vita aspra, vissuta senza alibi comodi, contraddizioni, tatticismi ideali, miserie piccolo borghesi. Che nei paesi cattolici sono una scorciatoia ideale facile: la morale del peccato, del perdono, lo consente, lo chiede.
Nato in Francia, quando scoppia la Grande Guerra la famiglia si trasferisce in Spagna (Castiglia) e il castigliano diventa la sua prima lingua. A 26 anni si iscrive al PSOE (Partido Socialista Obrero Espagnol). E’ quindi un militante con alle spalle una solida iniziazione politica (“Avevo trentatrè anni, quando è iniziata la Gran Cosa, e mi ha messo di fronte a me stesso…”) quando il 18 luglio 1936 Franco gela la giovane repubblica con il colpo di Stato aprendo la lunga, sanguinosa, feroce stagione della Guerra Civile che si concluderà nel 1975 con la sua morte.
“Gennaio senza nome”, Nutrimenti, Roma 2017, pp. 192, euro 17 (collana “Greenwich”), è un’antologia di racconti che riporta a quei giorni di eroismo e di valori da difendere strenuamente: libertà , democrazia, eguaglianza. Nel cuore del’Europa che poi vivrà gli orrori della Seconda Guerra, l’Olocausto, i lager, i gulag, la disintegrazione della sua anima illuminista, la barbarie e l’assassinio come prosecuzione della lotta politica, l’oscuramento di ogni valore e ideale sedimentato in millenni di civiltà .
Aub scrive dal cuore tormentato della sua personale odissea, umana e politica: nel 1939 è esiliato ma in Messico giunge solo nel 1942, dopo tre anni di prigionia nei campi di concentramento della Francia. In certi snodi riecheggia anche nello stile asciutto, essenziale, l’Hemingway di “Per chi suona la campana”, anche se lo sguardo dello scrittore americano è più da esteta che da politico.
Lo smarrimento identitario è una delle password dei racconti: comune a ogni uomo che insegue una sua utopia che si scontra con i mediocri del suo tempo. “Adesso tutti gli uomini sono cattivi”, mi diceva il lustrascarpe. “Li hanno cambiati. E’ come se Dio l’avesse morso un cane rabbioso”.
Un libro di sorprendente attualità , oggi che risorgono nazionalismi infetti e rinascono i nostalgici del negazionismo riproponendo rituali sconfitti dalla Storia. “Mai più”, si dice ogni volta. Solo che il passato ritorna sotto altre sembianze, ma con la stessa feroce escatologia, tanto da far dubitare del reale desiderio dell’uomo di ipotizzare altre forme di esistenza che non siano disumane e mortali.
Max Aub (1903-1972, giornalista, poeta, narratore, drammaturgo, sceneggiatore) non sfugge al mantra. Tutto quel che ha scritto (i romanzi de “Il labirinto magico”, ma anche opere teatrali, poesie sulla sua rivista, articoli politici, ecc.) è cosparso di passione civile, di etica politica, di coerenza.
La sua opera è in stretta osmosi con una vita aspra, vissuta senza alibi comodi, contraddizioni, tatticismi ideali, miserie piccolo borghesi. Che nei paesi cattolici sono una scorciatoia ideale facile: la morale del peccato, del perdono, lo consente, lo chiede.
Nato in Francia, quando scoppia la Grande Guerra la famiglia si trasferisce in Spagna (Castiglia) e il castigliano diventa la sua prima lingua. A 26 anni si iscrive al PSOE (Partido Socialista Obrero Espagnol). E’ quindi un militante con alle spalle una solida iniziazione politica (“Avevo trentatrè anni, quando è iniziata la Gran Cosa, e mi ha messo di fronte a me stesso…”) quando il 18 luglio 1936 Franco gela la giovane repubblica con il colpo di Stato aprendo la lunga, sanguinosa, feroce stagione della Guerra Civile che si concluderà nel 1975 con la sua morte.
“Gennaio senza nome”, Nutrimenti, Roma 2017, pp. 192, euro 17 (collana “Greenwich”), è un’antologia di racconti che riporta a quei giorni di eroismo e di valori da difendere strenuamente: libertà , democrazia, eguaglianza. Nel cuore del’Europa che poi vivrà gli orrori della Seconda Guerra, l’Olocausto, i lager, i gulag, la disintegrazione della sua anima illuminista, la barbarie e l’assassinio come prosecuzione della lotta politica, l’oscuramento di ogni valore e ideale sedimentato in millenni di civiltà .
Aub scrive dal cuore tormentato della sua personale odissea, umana e politica: nel 1939 è esiliato ma in Messico giunge solo nel 1942, dopo tre anni di prigionia nei campi di concentramento della Francia. In certi snodi riecheggia anche nello stile asciutto, essenziale, l’Hemingway di “Per chi suona la campana”, anche se lo sguardo dello scrittore americano è più da esteta che da politico.
Lo smarrimento identitario è una delle password dei racconti: comune a ogni uomo che insegue una sua utopia che si scontra con i mediocri del suo tempo. “Adesso tutti gli uomini sono cattivi”, mi diceva il lustrascarpe. “Li hanno cambiati. E’ come se Dio l’avesse morso un cane rabbioso”.
Un libro di sorprendente attualità , oggi che risorgono nazionalismi infetti e rinascono i nostalgici del negazionismo riproponendo rituali sconfitti dalla Storia. “Mai più”, si dice ogni volta. Solo che il passato ritorna sotto altre sembianze, ma con la stessa feroce escatologia, tanto da far dubitare del reale desiderio dell’uomo di ipotizzare altre forme di esistenza che non siano disumane e mortali.