di FREDERIC PASCALI - Diventare un’icona, un oggetto di venerazione indefessa e sempiterna da parte di un gruppo più o meno numeroso di fan è un processo non sempre facilmente codificabile. La versione cinematografica di “Ghost in the Shell”, il manga ideato da Masamune Shirow, sembra fortemente indiziata per entrare negli ingranaggi di questo meccanismo. Diretto da Rupert Sanders e abilmente sceneggiato da Jamie Moss e William Wheeler, il live action si colloca in un futuro altre volte riconoscibile ma, allo stesso tempo, inedito nella capacità di raffigurare le identità dei suoi personaggi principali.
In una città del Giappone, immersa in un’atmosfera vagamente alla “Blade Runner”, agisce Mira Killian, “il Maggiore”. Di umano le è rimasto solo il cervello, il resto del corpo, frutto della tecnologia della Hanka Robotics e del lavoro della dottoressa Ouelet, la rende simile a un cyborg sofisticato e quasi indistruttibile.
Mira è a capo della sezione di Sicurezza Pubblica 9, un’organizzazione anti terrorismo cibernetico gestita dal Governo e dalla Hanka. Il suo diretto superiore è l’anziano e saggio Daisuke Aramaki. Nel combattere Kuze,un presunto terrorista, “Il Maggiore” ha l’occasione per scavare nel suo passato e scoprire la verità sulla sua precedente identità , quella di Makoto Kusanagi.
“Ghost in the Shell” si colloca in quella fascia di rappresentazione scenica nella quale l’eroe pressoché invincibile non è tuttavia privo di debolezze tipiche di qualsiasi individuo, il classico prototipo del superoe Marvel o Detective Comics.
La stessa natura doppia di Mira spinge in questo senso, con i suoi due aspetti che nel progredire narrativo si svelano interagendo costantemente tra loro. Il volto e il corpo di Scarlett Johansson contribuiscono allo scopo con l’attrice americana che, ancora una volta, rivela fascino e bravura tali da fendere i numerosi effetti speciali che l’attorniano e catturare la luce della vivida fotografia di Jesse Hall. Più una storia di Jedi che di Samurai, la pellicola di Sanders arruola nel cast il mito Takeshi Kitano, “Aramaki”, a cui viene affidata la battuta di cartello, “mai mandare un coniglio ad ammazzare una volpe”, e l’eterea Juliette Binoche, “Dott.ssa Ouelet”, qui meno convincente del solito.
In una città del Giappone, immersa in un’atmosfera vagamente alla “Blade Runner”, agisce Mira Killian, “il Maggiore”. Di umano le è rimasto solo il cervello, il resto del corpo, frutto della tecnologia della Hanka Robotics e del lavoro della dottoressa Ouelet, la rende simile a un cyborg sofisticato e quasi indistruttibile.
Mira è a capo della sezione di Sicurezza Pubblica 9, un’organizzazione anti terrorismo cibernetico gestita dal Governo e dalla Hanka. Il suo diretto superiore è l’anziano e saggio Daisuke Aramaki. Nel combattere Kuze,un presunto terrorista, “Il Maggiore” ha l’occasione per scavare nel suo passato e scoprire la verità sulla sua precedente identità , quella di Makoto Kusanagi.
“Ghost in the Shell” si colloca in quella fascia di rappresentazione scenica nella quale l’eroe pressoché invincibile non è tuttavia privo di debolezze tipiche di qualsiasi individuo, il classico prototipo del superoe Marvel o Detective Comics.
La stessa natura doppia di Mira spinge in questo senso, con i suoi due aspetti che nel progredire narrativo si svelano interagendo costantemente tra loro. Il volto e il corpo di Scarlett Johansson contribuiscono allo scopo con l’attrice americana che, ancora una volta, rivela fascino e bravura tali da fendere i numerosi effetti speciali che l’attorniano e catturare la luce della vivida fotografia di Jesse Hall. Più una storia di Jedi che di Samurai, la pellicola di Sanders arruola nel cast il mito Takeshi Kitano, “Aramaki”, a cui viene affidata la battuta di cartello, “mai mandare un coniglio ad ammazzare una volpe”, e l’eterea Juliette Binoche, “Dott.ssa Ouelet”, qui meno convincente del solito.