di FRANCESCO GRECO - Filosofa, mistica, scrittrice. Insegnante di latino e greco (free), operaia alla Renault. Agit-prop, ma senza gli eccessi della militanza nella Francia della seconda guerra che avrebbe collaborato col maresciallo Petain, mentre lei era con “France libre” di Charles De Gaulle.
Dunque, dna polisemico. Ma ciò che intimidisce e intriga di Simone Weil (1909-1943) è la lucidità analitica di un pensiero escatologico, pindarico, sospeso fra neo-umanesimo e neo- illuminismo, che accredita l’uomo di virtù maieutiche (“L’iniziativa e la responsabilità, il sentimento di essere utile e persino indispensabile, sono bisogni vitali dell’anima umana”).
Affascina l’estrema attualità della sua speculazione, come se avesse letto nella mente e nel cuore degli uomini d’ogni tempo e avesse indicato le linee-guida per perseguire un mondo di giustizia e verità, mitridadizzazione di ogni “crimine e menzogna” e corruzione, materiale e morale.
“Contro i partiti” (Solo ciò che è giusto è legittimo), Piano B Edizioni, Prato 2017, pp. 128, euro 13 (Collana “Elementi”, ottima traduzione e curatela di Carla Conforti) si compone di quattro saggi: “Sull’abolizione dei partiti politici”, “I bisogni dell’anima”, “Lottiamo per la giustizia?” e “Idee essenziali per una nuova costituzione” (più una lettera a George Bernanos in appendice) attraversati da una tensione ideale di sorprendente nitore (che sovrappone a quello di Rousseau) e un denominatore comune: la preoccupazione (“ogni patto sociale dovrebbe radicarsi sugli obblighi che si hanno verso gli altri”) per la realtà sminuita dai partiti (“il totalitarismo è il peccato originale dei partiti”), inadeguati nel gestire e governare, incapace di dare una speranza all’anima degli uomini, tesi solo a governare le loro macchine di potere (“un male allo stato puro”), estranei all’uomo e alla collettività, incapaci (“infermità del pensiero”, “pigrizia mentale”) di guardare oltre il proprio ombelico, come se surrogasse il centro dell’universo, senza curarsi di una qualche “visione” complessiva.
Il pensiero della “marziana” avverte sui rischi della democrazia in cui “il popolo non ha mai l’opportunità o i mezzi di esprimere il parere su alcun problema della vita pubblica” (renzismo vs berlusconismo).
Si sviluppa su una stretta osmosi, una contaminazione ontologica fra la Chiesa sociale (oggi diremmo “Teologia della Liberazione”) e il socialismo delle radici, democratico, contro la concezione dei partiti che ci siamo costruita (e che comunque distingue da quella anglosassone, influenzata dall’etica luterana) e di caste politiche più attente ai propri privilegi che ai bisogni dei popoli. La sua analisi è così acuta, implacabile, che si dilata sino a ipotizzare “la soppressione dei partiti politici”.
“Antidogmatica”, potenziale revisionista, nel dopoguerra il pensiero della Weil è stato rimosso, o quasi: erano tempi di turgidità ideologica. Fu Albert Camus, per nostra fortuna, a proporne l’opera a Gallimard.
Alla filosofa (morta a soli 34 anni), che si può definire cattocomunista (“santa laica”, “marxista critica”), è stata comunque risparmiata la modernità, con i partiti ridotti a patologie, metastasi autoreferenziali (è uno degli effetti delle ideologie relativizzate che ancorano i politici al proprio smisurato super-io), e il personale politico parassita del reale, che spalma napalm e il marciume ideale dei sub valori o pseudovalori del dominio sulla società, desertificandola, e spesso cercano l’impunità per commettere in santa pace i loro crimini contro l’uomo e il mondo: chissà cosa direbbe oggi?
Dunque, dna polisemico. Ma ciò che intimidisce e intriga di Simone Weil (1909-1943) è la lucidità analitica di un pensiero escatologico, pindarico, sospeso fra neo-umanesimo e neo- illuminismo, che accredita l’uomo di virtù maieutiche (“L’iniziativa e la responsabilità, il sentimento di essere utile e persino indispensabile, sono bisogni vitali dell’anima umana”).
Affascina l’estrema attualità della sua speculazione, come se avesse letto nella mente e nel cuore degli uomini d’ogni tempo e avesse indicato le linee-guida per perseguire un mondo di giustizia e verità, mitridadizzazione di ogni “crimine e menzogna” e corruzione, materiale e morale.
“Contro i partiti” (Solo ciò che è giusto è legittimo), Piano B Edizioni, Prato 2017, pp. 128, euro 13 (Collana “Elementi”, ottima traduzione e curatela di Carla Conforti) si compone di quattro saggi: “Sull’abolizione dei partiti politici”, “I bisogni dell’anima”, “Lottiamo per la giustizia?” e “Idee essenziali per una nuova costituzione” (più una lettera a George Bernanos in appendice) attraversati da una tensione ideale di sorprendente nitore (che sovrappone a quello di Rousseau) e un denominatore comune: la preoccupazione (“ogni patto sociale dovrebbe radicarsi sugli obblighi che si hanno verso gli altri”) per la realtà sminuita dai partiti (“il totalitarismo è il peccato originale dei partiti”), inadeguati nel gestire e governare, incapace di dare una speranza all’anima degli uomini, tesi solo a governare le loro macchine di potere (“un male allo stato puro”), estranei all’uomo e alla collettività, incapaci (“infermità del pensiero”, “pigrizia mentale”) di guardare oltre il proprio ombelico, come se surrogasse il centro dell’universo, senza curarsi di una qualche “visione” complessiva.
Il pensiero della “marziana” avverte sui rischi della democrazia in cui “il popolo non ha mai l’opportunità o i mezzi di esprimere il parere su alcun problema della vita pubblica” (renzismo vs berlusconismo).
Si sviluppa su una stretta osmosi, una contaminazione ontologica fra la Chiesa sociale (oggi diremmo “Teologia della Liberazione”) e il socialismo delle radici, democratico, contro la concezione dei partiti che ci siamo costruita (e che comunque distingue da quella anglosassone, influenzata dall’etica luterana) e di caste politiche più attente ai propri privilegi che ai bisogni dei popoli. La sua analisi è così acuta, implacabile, che si dilata sino a ipotizzare “la soppressione dei partiti politici”.
“Antidogmatica”, potenziale revisionista, nel dopoguerra il pensiero della Weil è stato rimosso, o quasi: erano tempi di turgidità ideologica. Fu Albert Camus, per nostra fortuna, a proporne l’opera a Gallimard.
Alla filosofa (morta a soli 34 anni), che si può definire cattocomunista (“santa laica”, “marxista critica”), è stata comunque risparmiata la modernità, con i partiti ridotti a patologie, metastasi autoreferenziali (è uno degli effetti delle ideologie relativizzate che ancorano i politici al proprio smisurato super-io), e il personale politico parassita del reale, che spalma napalm e il marciume ideale dei sub valori o pseudovalori del dominio sulla società, desertificandola, e spesso cercano l’impunità per commettere in santa pace i loro crimini contro l’uomo e il mondo: chissà cosa direbbe oggi?