di VITTORIO POLITO - Nicola Pignataro, protagonista e direttore del Teatro “Purgatorio” di Bari, autore e interprete di numerose commedie in dialetto barese, ha pubblicato in questi giorni per le edizioni Radici Future il volume “Ce nge n’ama scì sciamaninne” (Se ce ne dobbiamo andare, andiamocene).
Si tratta di un viaggio nel tempo, lungo tre millenni, alla ricerca delle radici della baresità, delle origini della lingua parlata “nostra madre lingua”, come la chiama l’autore e non solo.
L’autore accompagna delicatamente i lettori in un viaggio dalla preistoria ai giorni nostri, unendo la storia di Bari, il dialetto barese e qualche nota grammaticale per facilitare la lettura del dialetto.
Pignataro si pone una domanda: “È ancora utile nel terzo millennio riproporre lo studio del dialetto?”. La risposta non può essere che essere affermativa, anche per essere aggiornati sulla copiosa letteratura dialettale che non teme confronti con quella nazionale. Infatti è arcinoto che i dialetti (e quello barese in particolare), supera di gran lunga l’italiano per sintesi, incisività, immediatezza, musicalità, arguzia e slancio poetico.
E, dopo l’inizio con l’alfabeto, con incluse e insostituibili e indispensabili lettere j e k, durante il racconto storico, Pignataro, intervalla i capitoli con il glossario “Ce vòle disce”, che si ripete per arricchire e facilitare al massimo il significato di termini, vocaboli e modi di dire (es. gagge: amante o fidanzato appena conosciuto, oppure di un tizio che sta per combinare un imbroglio; strusciabbène: scialacquatore, qualcuno che non ha rispetto per il denaro e lo consuma malamente; mappìne: schiaffo o straccio da cucina. Ma in dialetto barese ha un mare di sinonimi ed eccone qualche altro: cannàle, garzàle, salescìnne, lisce e busse, lavamùsse, ecc.
Il contenuto del libro si estende in ben 32 capitoli nei quali si parla delle origini di Bari, della nostra cucina (la checina noste), Bari greca e romana, Emirato di Baruch, Bari altomedievale, saracena, bizantina, normanno-sveva, angioina, Isabella D’Aragona e tanti altri racconti che si leggono piacevolmente. Non manca neanche una simpatica lista di frasi fatte per andare al bar e ristorante. Un esempio? “Ho fretta, mi porti da mangiare”? “Vògghe de fòdde, famme mangià”, e così via.
In fine, mi piace ricordare il XXI capitolo riferito alla Piccola antologia della letteratura barese, nel quale l’autore narra sinteticamente qualche cronaca, citando personaggi e alcuni poeti dialettali baresi (Giorgio Sagarriga Visconti, Francesco Saverio Abbrescia, Davide Lopez, Gaetano Savelli, Giuseppe Capriati, Gaetano Granieri, Michele Bellomo, Giuseppe Lembo, Peppino Franco, Agnese Palummo, Vito De Fano, Vito Maurogiovanni, Alfredo Giovine), e qualche verso delle loro poesie.
Concludo con i versi della poetessa Agnese Palummo, che fu operatrice didattica nel centro storico barese, al quale dedicò alcune poesie, tra cui quella dal titolo “Bare vecchie mi amate!” che così si conclude:
Ah, Bare vecchie mi, quante si bedde!
Da do a nu mese t’agghia abbandenà!
M’onne tagghiate u core a fedde a fedde!
Dimme, ci ma de te s’ava scherdà!...
Si tratta di un viaggio nel tempo, lungo tre millenni, alla ricerca delle radici della baresità, delle origini della lingua parlata “nostra madre lingua”, come la chiama l’autore e non solo.
L’autore accompagna delicatamente i lettori in un viaggio dalla preistoria ai giorni nostri, unendo la storia di Bari, il dialetto barese e qualche nota grammaticale per facilitare la lettura del dialetto.
Pignataro si pone una domanda: “È ancora utile nel terzo millennio riproporre lo studio del dialetto?”. La risposta non può essere che essere affermativa, anche per essere aggiornati sulla copiosa letteratura dialettale che non teme confronti con quella nazionale. Infatti è arcinoto che i dialetti (e quello barese in particolare), supera di gran lunga l’italiano per sintesi, incisività, immediatezza, musicalità, arguzia e slancio poetico.
E, dopo l’inizio con l’alfabeto, con incluse e insostituibili e indispensabili lettere j e k, durante il racconto storico, Pignataro, intervalla i capitoli con il glossario “Ce vòle disce”, che si ripete per arricchire e facilitare al massimo il significato di termini, vocaboli e modi di dire (es. gagge: amante o fidanzato appena conosciuto, oppure di un tizio che sta per combinare un imbroglio; strusciabbène: scialacquatore, qualcuno che non ha rispetto per il denaro e lo consuma malamente; mappìne: schiaffo o straccio da cucina. Ma in dialetto barese ha un mare di sinonimi ed eccone qualche altro: cannàle, garzàle, salescìnne, lisce e busse, lavamùsse, ecc.
Il contenuto del libro si estende in ben 32 capitoli nei quali si parla delle origini di Bari, della nostra cucina (la checina noste), Bari greca e romana, Emirato di Baruch, Bari altomedievale, saracena, bizantina, normanno-sveva, angioina, Isabella D’Aragona e tanti altri racconti che si leggono piacevolmente. Non manca neanche una simpatica lista di frasi fatte per andare al bar e ristorante. Un esempio? “Ho fretta, mi porti da mangiare”? “Vògghe de fòdde, famme mangià”, e così via.
In fine, mi piace ricordare il XXI capitolo riferito alla Piccola antologia della letteratura barese, nel quale l’autore narra sinteticamente qualche cronaca, citando personaggi e alcuni poeti dialettali baresi (Giorgio Sagarriga Visconti, Francesco Saverio Abbrescia, Davide Lopez, Gaetano Savelli, Giuseppe Capriati, Gaetano Granieri, Michele Bellomo, Giuseppe Lembo, Peppino Franco, Agnese Palummo, Vito De Fano, Vito Maurogiovanni, Alfredo Giovine), e qualche verso delle loro poesie.
Concludo con i versi della poetessa Agnese Palummo, che fu operatrice didattica nel centro storico barese, al quale dedicò alcune poesie, tra cui quella dal titolo “Bare vecchie mi amate!” che così si conclude:
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Ah, Bare vecchie mi, quante si bedde!
Da do a nu mese t’agghia abbandenà!
M’onne tagghiate u core a fedde a fedde!
Dimme, ci ma de te s’ava scherdà!...