di FRANCESCO GRECO - Macron, questo sconosciuto. Un oggetto misterioso, un ufo piombato nel cuore dell'Europa che vede la grande crisi durata dieci anni illanguidirsi, allontanarsi, ma non sa dare stabilità e razionalità alla ripresa: i popoli ne sono esclusi, il patto sociale destrutturato.
Macron non ha un partito, un movimento che lo sostiene. Ma rappresenta un laboratorio politico intrigante, pregno di una maieutica ancora tutta da scrivere e la curiosità è tanta.
Se si vuole attingere al dèjà -vu si potrebbe dire lib-lab. O socialismo liberale. O terza via percorsa da Tony Blair (ma in un contesto storico diverso). O, ancora, post-ideologico. Ma ogni formula pare esigua, riduttiva per decodificare l'uomo, il politico, il suo concept (“sono le mie indignazioni a essere di sinistra, di fronte alle diseguaglianze che ostacolano la libertà ”), la “società della mobilità ” contro quella delle rendite di posizione, “L'ideologia, è una costruzione intellettuale che illumina la realtà dandole un senso...”, “Le etichette mi importano poco” (“pericoloso liberale”, “amico dei ricchi”, “uomo delle lobby”).
Per gli apologeti la generazione-Macron riuscirà a dare un volto umano alla gloobalizzazione, spianando le sue perfide asprezze, in termini di costi umani, muovendo verso il prosciugamento delle diseguaglianze della base sociale, con sullo sfondo l'impresa, il dio-mercato cui infondere un'etica. Non solo: ridarà vigore all'etimo dell'ideale europeo logoro, sfilacciato intra moenia (GB) e oltre l'Atlantico (USA).
Per i critici (e già piovono accuse di nepotismo) invece è il volto presentabile delle élite finanziarie, i poteri forti (“la continuazione di un disastroso status quo opposta a un membro della famiglia Le Pen”, Sunday Times, 30 aprile scorso) per i quali la mondializzazione è l'Eden, non vogliono arretrare di un centimetro, la piramide va bene così, tanto da aver ridotto l'Europa a un fantasma borgesiano atomizzato da spinte confuse, dall'ontologia oscura e a tratti inquietante.
C'è dunque bisogno di capire, di sapere, all'inizio di un parabola ricca di semantica, sinora vincente. E a far luce sulle interfacce di un 40enne (Amiens, 1977, filosofo mancato, allievo di Paul Ricoeur che gli fece capire la filosofia antica), anagraficamente destinato a durare (prima sfida l'11 giugno quando il neo-presidente cercherà nelle urne una maggioranza trasversale, come la sua formazione politica) che crede nella sua “rivoluzione” (“al di là del discrimine destra-sinistra”, Ferrara) che vorrebbe coniugare uguaglianza sociale, diritti e mercato, e la legge addirittura come un format magari esportabile, giunge “Macron” (La rivoluzione liberale francese), di Mauro Zanon, Marsilio Editore, Venezia 2017, pp. 156, euro 12,00 (collana “Ancora”), prefazione di Giuliano Ferrara.
Da studente in un liceo cattolico (“La Providence”, nome che traccia quasi un destino per chi crede alle sibille: qui incontra la futura moglie, Brigitte Trogneux, che insegna francese e tiene laboratori di teatro, frequentati, ovvio da Emmanuel), a ispettore delle finanze, chiamato, tramite Jacques Attali, da Sarkozy nel 2007 (l'idea di contaminare destra e sinistra è sua: solo unendo le forze per le “riforme condivise” si può rimodulare la società , libertè, egalitè, fraternitè) nella Commissione Attali per la liberazione della crescita, poi ministro dell'Economia con Holland e infine “En March!” (poi “Republique en march!) e infine l'Eliseo.
Il tutto nel paese più sciovinista d'Europa, che ha il copyright della grandeur, retaggio di un passato coloniale di chiaroscuri, di polvere spazzata sotto al tappeto. Il paese della ghigliottina, la Bastiglia, le brioches e la dottrina-Mitterand.
L'affresco di Zanon è essenziale perciò efficace, senza barocchismi né retorica: Macron è pur sempre nipote di Balzac e di Hugo. E infatti tiene d'occhio i miserabili delle banlieue come, d'altronde, già aveva fatto Attali con PlaNet France nel 2006, con progetti di inclusione, di nuove start-up, poiché “oggi, è più facile trovare un cliente, che trovare un datore di lavoro”. E il Quarto Stato che lì vive ha sentito subito il richiamo: “Nessuno è più macronista di un ragazzo delle banlieue!”, (Medhi, 22 anni, padre bretone, madre algerina).
“Forte empatia, grande etica del lavoro, capacità di sintesi ed efficacia, grandi capacità di ascolto”, Macron è stato fortunato negli incontri e i “grandi” incrociati sono diventati suoi maestri.
Difficile dire se la sua rivoluzione cambierà la Francia e rifonderà l'Europa. Di certo c'è che forse non restavano altre vie, e Macron ci sta provando. Ultima nota a margine: da settimane si parla dell'equivalente di Macron in Italia, come se uomini e storie fossero facilmente assimilabili. I pifferai magici dicono Renzi, ma in comune forse hanno solo la passione per Machiavelli, e per la “vita trepidante”. Come possono, d'altronde, essere sovrapposti se l'uno ha frequentato Attali e Paul Ricoeur (oltre a Hegel e Morin) e l'altro Verdini, Berlusconi, Alfano (oltre ad avere un babbo ingombrante che traffica in influenze) svelando un paese al nucleo inguaribilmente provinciale e rustico?
Macron non ha un partito, un movimento che lo sostiene. Ma rappresenta un laboratorio politico intrigante, pregno di una maieutica ancora tutta da scrivere e la curiosità è tanta.
Se si vuole attingere al dèjà -vu si potrebbe dire lib-lab. O socialismo liberale. O terza via percorsa da Tony Blair (ma in un contesto storico diverso). O, ancora, post-ideologico. Ma ogni formula pare esigua, riduttiva per decodificare l'uomo, il politico, il suo concept (“sono le mie indignazioni a essere di sinistra, di fronte alle diseguaglianze che ostacolano la libertà ”), la “società della mobilità ” contro quella delle rendite di posizione, “L'ideologia, è una costruzione intellettuale che illumina la realtà dandole un senso...”, “Le etichette mi importano poco” (“pericoloso liberale”, “amico dei ricchi”, “uomo delle lobby”).
Per gli apologeti la generazione-Macron riuscirà a dare un volto umano alla gloobalizzazione, spianando le sue perfide asprezze, in termini di costi umani, muovendo verso il prosciugamento delle diseguaglianze della base sociale, con sullo sfondo l'impresa, il dio-mercato cui infondere un'etica. Non solo: ridarà vigore all'etimo dell'ideale europeo logoro, sfilacciato intra moenia (GB) e oltre l'Atlantico (USA).
Per i critici (e già piovono accuse di nepotismo) invece è il volto presentabile delle élite finanziarie, i poteri forti (“la continuazione di un disastroso status quo opposta a un membro della famiglia Le Pen”, Sunday Times, 30 aprile scorso) per i quali la mondializzazione è l'Eden, non vogliono arretrare di un centimetro, la piramide va bene così, tanto da aver ridotto l'Europa a un fantasma borgesiano atomizzato da spinte confuse, dall'ontologia oscura e a tratti inquietante.
C'è dunque bisogno di capire, di sapere, all'inizio di un parabola ricca di semantica, sinora vincente. E a far luce sulle interfacce di un 40enne (Amiens, 1977, filosofo mancato, allievo di Paul Ricoeur che gli fece capire la filosofia antica), anagraficamente destinato a durare (prima sfida l'11 giugno quando il neo-presidente cercherà nelle urne una maggioranza trasversale, come la sua formazione politica) che crede nella sua “rivoluzione” (“al di là del discrimine destra-sinistra”, Ferrara) che vorrebbe coniugare uguaglianza sociale, diritti e mercato, e la legge addirittura come un format magari esportabile, giunge “Macron” (La rivoluzione liberale francese), di Mauro Zanon, Marsilio Editore, Venezia 2017, pp. 156, euro 12,00 (collana “Ancora”), prefazione di Giuliano Ferrara.
Da studente in un liceo cattolico (“La Providence”, nome che traccia quasi un destino per chi crede alle sibille: qui incontra la futura moglie, Brigitte Trogneux, che insegna francese e tiene laboratori di teatro, frequentati, ovvio da Emmanuel), a ispettore delle finanze, chiamato, tramite Jacques Attali, da Sarkozy nel 2007 (l'idea di contaminare destra e sinistra è sua: solo unendo le forze per le “riforme condivise” si può rimodulare la società , libertè, egalitè, fraternitè) nella Commissione Attali per la liberazione della crescita, poi ministro dell'Economia con Holland e infine “En March!” (poi “Republique en march!) e infine l'Eliseo.
Il tutto nel paese più sciovinista d'Europa, che ha il copyright della grandeur, retaggio di un passato coloniale di chiaroscuri, di polvere spazzata sotto al tappeto. Il paese della ghigliottina, la Bastiglia, le brioches e la dottrina-Mitterand.
L'affresco di Zanon è essenziale perciò efficace, senza barocchismi né retorica: Macron è pur sempre nipote di Balzac e di Hugo. E infatti tiene d'occhio i miserabili delle banlieue come, d'altronde, già aveva fatto Attali con PlaNet France nel 2006, con progetti di inclusione, di nuove start-up, poiché “oggi, è più facile trovare un cliente, che trovare un datore di lavoro”. E il Quarto Stato che lì vive ha sentito subito il richiamo: “Nessuno è più macronista di un ragazzo delle banlieue!”, (Medhi, 22 anni, padre bretone, madre algerina).
“Forte empatia, grande etica del lavoro, capacità di sintesi ed efficacia, grandi capacità di ascolto”, Macron è stato fortunato negli incontri e i “grandi” incrociati sono diventati suoi maestri.
Difficile dire se la sua rivoluzione cambierà la Francia e rifonderà l'Europa. Di certo c'è che forse non restavano altre vie, e Macron ci sta provando. Ultima nota a margine: da settimane si parla dell'equivalente di Macron in Italia, come se uomini e storie fossero facilmente assimilabili. I pifferai magici dicono Renzi, ma in comune forse hanno solo la passione per Machiavelli, e per la “vita trepidante”. Come possono, d'altronde, essere sovrapposti se l'uno ha frequentato Attali e Paul Ricoeur (oltre a Hegel e Morin) e l'altro Verdini, Berlusconi, Alfano (oltre ad avere un babbo ingombrante che traffica in influenze) svelando un paese al nucleo inguaribilmente provinciale e rustico?