di FRANCESCO GRECO - Se volete conoscere “de visu”, e forse anche capire l’inferno siriano, procuratevi “Shukran ti salverò”, di Giovanni Terzi, Imprimatur Edizioni, Reggio Emilia 2016, pp. 127, euro 14,00.
Guarderete a quel mondo con uno sguardo nuovo, più dentro al dramma, nella sua feroce complessità. Capireste perché in tanti scappano cercando una vita lontano (ma noi, filosofi del nulla, distinguiamo tra chi fugge dalle bombe e chi dalla povertà), perché Aylan Kurdi affogò a Bodrum, una spiaggia della Turchia e la sua foto sbattuta sui giornali di tutto il mondo, perché altri come lui muoiono a causa dell’embargo sulle medicine (l’ossigeno per esempio) di cui non ci facciamo scrupolo (“Non credo ci sia cosa più terribile per un uomo che può salvare un bambino o un essere vivente che quello di non poterlo fare…”) e qualcuno si salva grazie a medici che della loro cura hanno fatto la mission di una vita (“quei bambini che motivo hanno di soffrire, cosa hanno fatto per meritare tanto dolore?”, “Non esiste pietà per questi cuccioli ignari di quello che il califfato…”, “lo Stato islamico che continua ad addestrare migliaia di bambini…”, “vengono pagati per spiare… addestrati per diventare dei piccoli kamikaze… in prima fila quando ci sono le decapitazioni o le crocifissioni… lo Stato islamico continua ad addestrare migliaia di bambini… la cui infedeltà è punita con il taglio di braccia, mani e gambe…”).
Il libro racconta la storia di uno di questi, Tammam Youssef, alawita, nato a Jeboul (Latakia, sul Mediterraneo, “già famosa nell’antica Grecia…”), primo di 13 figli di un generale delle forze armate (“rigoroso e severo… dolce e presente”), studi a Bucarest nel 1977 “sotto il regime comunista”, poi l’incontro col professor Alessandro Frigiola, presidente dell’Associazione Bambini Cardiopatici nel mondo, gli cambia la vita. Dirige infatti il Centro di Cardiochirurgia Pediatrica nella capitale della Siria dove interviene con i ferri sui bambini malati di cuore le cui aspettative di vita spesso sono nulle, o quasi, anche a causa di “una guerra atroce, crudele e priva di senso”.
Ma c’è sempre un prima (“Sembrava un’oasi Damasco…”) e un dopo (“Non esiste casa in Siria che non abbia avuto un lutto…”, “i miliziani stranieri provengono da almeno 74 nazioni…”) , da cui si dipana il racconto. La mattina del 24 aprile 2012, due autobomba esplodono nel cuore di Damasco (opera di al-Nusra), dieci vittime, fra cui Alì, il fratello minore di Tammam (“è morto da martire, nel modo più puro che possa accadere”). Che nella telefonata della sera prima gli aveva parlato di un bambino di nome Mohamed, malato di cuore. Solo che non è un bambino come tutti gli altri, senza che ne abbia colpa (viene da Idlib).
Il medico torna nella casa paterna per i funerali di Alì (“uomo d’impeto, di emozioni forti”, “ho sempre saputo della sua bontà, della generosità…”) e intanto pensa a quel bambino condannato, che dovrà prima trovare, poi operare, alla sua misteriosa identità.
Raccontando in prima persona, Tammam (è del 1959) offre uno spaccato del mondo arabo, le mille interfacce religiose, antropologiche, culturali, sociali e quant’altro che manco mille saggi di quelli che leggiamo qui avrebbero saputo darci. Per la semplice ragione che Tammam ha una visione totale, conosce bene il punto di vista occidentale (“Io amo la vostra cultura…”). Ci spiega le radici dell’odio fra gli stessi arabi e fra loro e noi, come e perché incubano le guerre (“la guerra ha odori, sapori e suoni che non è facile raccontare…”, “un sapore di morte e di paura che diventa ossessione”) di religione e il terrorismo a certe latitudini appare la “naturale” deriva per l’affermazione di un’identità (e di interessi, ovvio) minacciati.
Per cui quando alla fine la mamma del bambino dirà “Shukran” (grazie), lo decodifichiamo come il possibile inizio di un nuovo mondo, una vita dove tutti abbiamo cittadinanza, nel rispetto delle infinite diversità che ci portiamo sulla pelle e nel cuore e che invece di dividere dovrebbero arricchirci reciprocamente.
Guarderete a quel mondo con uno sguardo nuovo, più dentro al dramma, nella sua feroce complessità. Capireste perché in tanti scappano cercando una vita lontano (ma noi, filosofi del nulla, distinguiamo tra chi fugge dalle bombe e chi dalla povertà), perché Aylan Kurdi affogò a Bodrum, una spiaggia della Turchia e la sua foto sbattuta sui giornali di tutto il mondo, perché altri come lui muoiono a causa dell’embargo sulle medicine (l’ossigeno per esempio) di cui non ci facciamo scrupolo (“Non credo ci sia cosa più terribile per un uomo che può salvare un bambino o un essere vivente che quello di non poterlo fare…”) e qualcuno si salva grazie a medici che della loro cura hanno fatto la mission di una vita (“quei bambini che motivo hanno di soffrire, cosa hanno fatto per meritare tanto dolore?”, “Non esiste pietà per questi cuccioli ignari di quello che il califfato…”, “lo Stato islamico che continua ad addestrare migliaia di bambini…”, “vengono pagati per spiare… addestrati per diventare dei piccoli kamikaze… in prima fila quando ci sono le decapitazioni o le crocifissioni… lo Stato islamico continua ad addestrare migliaia di bambini… la cui infedeltà è punita con il taglio di braccia, mani e gambe…”).
Il libro racconta la storia di uno di questi, Tammam Youssef, alawita, nato a Jeboul (Latakia, sul Mediterraneo, “già famosa nell’antica Grecia…”), primo di 13 figli di un generale delle forze armate (“rigoroso e severo… dolce e presente”), studi a Bucarest nel 1977 “sotto il regime comunista”, poi l’incontro col professor Alessandro Frigiola, presidente dell’Associazione Bambini Cardiopatici nel mondo, gli cambia la vita. Dirige infatti il Centro di Cardiochirurgia Pediatrica nella capitale della Siria dove interviene con i ferri sui bambini malati di cuore le cui aspettative di vita spesso sono nulle, o quasi, anche a causa di “una guerra atroce, crudele e priva di senso”.
Ma c’è sempre un prima (“Sembrava un’oasi Damasco…”) e un dopo (“Non esiste casa in Siria che non abbia avuto un lutto…”, “i miliziani stranieri provengono da almeno 74 nazioni…”) , da cui si dipana il racconto. La mattina del 24 aprile 2012, due autobomba esplodono nel cuore di Damasco (opera di al-Nusra), dieci vittime, fra cui Alì, il fratello minore di Tammam (“è morto da martire, nel modo più puro che possa accadere”). Che nella telefonata della sera prima gli aveva parlato di un bambino di nome Mohamed, malato di cuore. Solo che non è un bambino come tutti gli altri, senza che ne abbia colpa (viene da Idlib).
Il medico torna nella casa paterna per i funerali di Alì (“uomo d’impeto, di emozioni forti”, “ho sempre saputo della sua bontà, della generosità…”) e intanto pensa a quel bambino condannato, che dovrà prima trovare, poi operare, alla sua misteriosa identità.
Raccontando in prima persona, Tammam (è del 1959) offre uno spaccato del mondo arabo, le mille interfacce religiose, antropologiche, culturali, sociali e quant’altro che manco mille saggi di quelli che leggiamo qui avrebbero saputo darci. Per la semplice ragione che Tammam ha una visione totale, conosce bene il punto di vista occidentale (“Io amo la vostra cultura…”). Ci spiega le radici dell’odio fra gli stessi arabi e fra loro e noi, come e perché incubano le guerre (“la guerra ha odori, sapori e suoni che non è facile raccontare…”, “un sapore di morte e di paura che diventa ossessione”) di religione e il terrorismo a certe latitudini appare la “naturale” deriva per l’affermazione di un’identità (e di interessi, ovvio) minacciati.
Per cui quando alla fine la mamma del bambino dirà “Shukran” (grazie), lo decodifichiamo come il possibile inizio di un nuovo mondo, una vita dove tutti abbiamo cittadinanza, nel rispetto delle infinite diversità che ci portiamo sulla pelle e nel cuore e che invece di dividere dovrebbero arricchirci reciprocamente.