BARI - Discorso del sindaco Antonio Decaro all'inaugurazione dell'81ma Campionaria.
"Signor Presidente del Consiglio, benvenuto a Bari. Autorità, signore e signori, benvenuti alla 81° edizione della Fiera del Levante!
Benvenuti all’inaugurazione della nostra Fiera.
Nostra non solo perché dal 1930 segna la storia di questa città. La Fiera del Levante è nostra perché ci assomiglia.
È intraprendente, come noi baresi. È un incrocio di storie e di popoli diversi, come noi baresi.
Ma soprattutto, la Fiera del Levante non si rassegna, e anche quando tutto sembra perduto combatte e si rialza. Proprio come noi baresi.
Da sindaco sono orgoglioso di questa somiglianza. E lo sono tanto più oggi, perché oggi la Fiera del Levante sa finalmente cosa vuol fare da grande. Perché grande lo sta già diventando.
Il progetto di rilancio della Fiera dimostra ancora una volta che quando le istituzioni collaborano, quando il sud e il nord dialogano, quando le polemiche politiche lasciano il posto al lavoro paziente di cucitura delle relazioni, non esistono più destini segnati e la storia può cambiare.
Per questa nuova e bella storia che cambia ringrazio il Presidente Michele Emiliano, che da sindaco ha avviato questo processo. E ringrazio un altro sindaco, il mio amico Virginio Merola, sindaco di Bologna che spero di avere presto il piacere di accompagnare tra gli stand della nostra Fiera.
Cambiare la storia, e cambiare le storie, quelle piccole, quelle dei cittadini delle nostre comunità. È questo, il dovere della politica. È questo il dovere di noi sindaci, e lo sanno bene i sindaci degli oltre 8.000 Comuni italiani che ho l’onore di rappresentare.
In ogni delibera che discutiamo, in ogni regolamento che modifichiamo, ci sono pezzi di vita di uomini e donne, ragazzi e ragazze in carne ed ossa, ci sono i loro progetti, le loro speranze, i loro sogni. E noi dobbiamo maneggiarli con cura, non solo perché sono l’anima delle nostre comunità. Ma perché sono fragili.
«Siamo tutti frangibili», come dice uno dei personaggi di un recente film di successo. E noi sindaci questa fragilità abbiamo il dovere di custodirla, rispettarla, proteggerla.
Fragile, purtroppo, è spesso anche la terra dove coltiviamo i nostri sogni. Frangibili le case nelle quali li facciamo crescere.
«Acca’ pare Casamicciola», diceva Lucariello davanti al presepe distrutto, in “Natale in casa Cupiello”. Perché a Casamicciola nel 1883, per un terribile terremoto oltre 2.300 persone persero la vita. E quindi per le generazioni successive quelle parole erano diventate sinonimo di tragedia, di lutto, di distruzione.
Sono sicuro che in pochi, tra i ragazzi di Ischia, usassero ancora quell’espressione. E sono sicuro che nessuno di loro immaginava che 134 anni dopo, quell’espressione sarebbe orribilmente tornata di attualità.
E invece… il 21 agosto 2017, ore 20:57, di nuovo vittime, di nuovo feriti, di nuovo case crollate e storie spezzate.
Signor presidente del Consiglio, come rappresentante di tutti i Comuni italiani Le rivolgo oggi una richiesta. Le chiedo di aiutarci a bandire dal vocabolario la parola emergenza. E di sostituirla con le parole prevenzione, regole, difesa del territorio, sicurezza, legalità, ricostruzione, comunità.
Perché quanto più è fragile il nostro territorio tanto più solidi dovranno essere i nostri progetti a lungo termine, tanto più stabile dovrà essere la nostra capacità di pianificare, tanto più robusta dovrà essere la nostra visione.
«Mi vuoi bene? Allora vieni» dice Ciro da sotto le macerie a Mario, il suo soccorritore.
E forse Ciro, 7 anni, non lo sa, ma quella frase non la sta dicendo soltanto alle persone straordinarie che hanno lavorato instancabilmente per salvare vite umane da quel disastro, uomini e donne a cui vorrei mandare il nostro ringraziamento, da sindaco, da cittadino, da padre.
Ciro quella frase la sta dicendo a noi. A tutti i rappresentanti delle istituzioni.
Ascoltate l’audio, se potete. Vi accorgerete dal tono che la sua non è una supplica, assomiglia piuttosto a un ordine. Perché la voce di Ciro da sotto quelle macerie è la voce di tutti i cittadini più fragili, di quelli in difficoltà, di quelli svantaggiati. E ci urla forte: «Che aspetti? Vieni. Tu sei lo Stato. Tu devi volermi bene. Tu mi devi dare una mano!»
Massimo Cacciari, qualche giorno fa ha scritto che «non abbiamo più tempo né alibi (…) la politica non deve ascoltare le domande e ripeterle (…) deve dare risposte e indicare prospettive».
Ecco. Di fronte a Casamicciola, come ad Amatrice, a Genova, la politica ha due strade davanti: la prima è quella di assecondare i professionisti della lamentela, i contestatori a tempo indeterminato, e mettere in scena qualche teatrino da talk show dove nel chiasso generale vale tutto e non rimane nulla.
La seconda è quella di lavorare sodo per mettere in campo progetti concreti perché la sicurezza del territorio diventi una priorità su cui fondare la Politica del nostro Paese. Io scelgo la seconda strada. E chiedo con forza che il progetto Casa Italia non si fermi in campagna elettorale, anzi, proceda più spedito che mai.
È questo l’unico modo credibile che abbiamo per rispondere a Ciro.
E per rispondere a Giovanni. Un altro bambino, che ho incontrato più volte quest’estate. Giovanni ha otto anni e quelli del suo quartiere, il quartiere Libertà, lo chiamano «il terribile» perché non parla con nessuno ma passa le giornate in bici dando calci ai passanti, insultandoli e provando a fare a botte con tutti.
Eppure a luglio Giovanni, per una sera, per qualche minuto, ha lasciato la sua bicicletta e si è fermato nell’oratorio del suo quartiere a guardare un film che parlava di lotta alle mafie.
Eppure un mese fa Giovanni, mentre gli davo le spalle, è venuto ad abbracciarmi e mi ha detto: «Sindaco, tu a me devi guardare».
Da sotto le macerie di una casa crollata, o da sotto le macerie sociali di un quartiere di una città del Sud, Ciro e Giovanni ci dicono la stessa cosa. E ce la dicono con un’enorme dignità.
«Noi siamo qui» ci dicono. «E voi non potete girarvi dall’altra parte, non potete rinchiudervi nel Palazzo, non potete cavarvela con un post su Facebook o con un discorso in tv. Voi dovete venire qui, dovete stare con noi, dovete parlare, guardarci, capirci. È il vostro lavoro. È il vostro dovere».
Quelle macerie sociali del quartiere Libertà stiamo provando a rimuoverle. Stiamo provando, con fatica, a ricostruire. Per questo, quando si è trattato di scegliere i luoghi su cui investire per il Bando del Governo sulle Periferie non abbiamo esitato un attimo.
Insieme agli altri 40 sindaci dell’area metropolitana di Bari abbiamo fatto squadra, e abbiamo candidato tutti insieme le nostre periferie. E il 6 marzo scorso ho avuto l’onore di firmare insieme a Te, Paolo il finanziamento dei primi 24 progetti dei comuni italiani. E il nostro progetto era al primo posto in classifica.
Grazie a quella firma 11 milioni di euro saranno destinati alla riqualificazione di piazze, parchi e giardini del quartier “Libertà”.
E io quella firma voglio dedicarla a Giovanni e a tutti i bambini come lui, condannati a diventare adulti troppo in fretta.
Una firma non può fermare il tempo. Ma se è vero che l’infanzia è il periodo del gioco e dell’allegria, forse quella firma potrà farli restare bambini un po’ di più.
E poi diciamocelo. Giovanni mi sta simpatico perché anche noi sindaci siamo un po’ terribili, un po’ rompiscatole come lui. E come lui chiediamo attenzione, per il bene delle nostre comunità. Paolo lo sa, e quando gli rompo le scatole a nome di tutti i sindaci d’Italia, è sempre comprensivo.
Anzi, approfitto per ringraziarti, Presidente, per aver condiviso le nuove norme sulla sicurezza urbana. Era impensabile per un sindaco provare a dare risposte ai cittadini e a gestire le emergenze quotidiane senza nessuno strumento. Oggi un passo avanti è stato fatto. Abbiamo finalmente una legge che permette al Sindaco di convocare con il Prefetto il Comitato metropolitano per la sicurezza urbana e segnalare i luoghi da sottoporre a tutele e daspo per contrastare i fenomeni di illegalità. Oggi possiamo contare su una maggiore collaborazione istituzionale per garantire più sicurezza ai nostri cittadini.
Collaborare con le istituzioni, lavorare sodo, evitare polemiche. Ecco il metodo che i sindaci propongono al Paese. È una ricetta che conosciamo bene. E che stiamo sperimentando anche nella complicata gestione dei flussi migratori.
Una questione complessa, epocale e di dimensioni planetarie. Basterebbe questa constatazione per evitare di banalizzarla o ridurla ad un’arma da campagna elettorale.
Noi sindaci non dobbiamo trasformarci in imprenditori della paura. Noi sindaci dobbiamo restare quello che siamo: operai della civiltà, che studiano i fenomeni, approfondiscono, conoscono e poi costruiscono con impegno civile, parole nuove, nuove relazioni, storie di convivenza, di rispetto e di regole condivise.
Chi arriva qui da noi non lo fa quasi mai per scelta. E non merita di trovarsi di fronte un Paese ostile, aggressivo, che discrimina il prossimo per il colore della sua pelle o per il continente dal quale proviene.
Il 6 luglio scorso al porto di Bari sono sbarcati 643 migranti. Tra loro c’era un bambino nato in mare qualche giorno prima. Faceva caldo e c’era un sole accecante, eppure quel bambino, tra le braccia di uno dei tanti volontari che gestivano l’accoglienza, ha aperto gli occhi ed è nato una seconda volta. È come se il nostro Paese lo avesse nuovamente partorito, salvandolo da un destino che sembrava segnato.
Su questo ciascuno potrà pensarla come vuole, facendo i conti con la propria coscienza di uomo e di rappresentante delle istituzioni. Ma io, in quel momento, sono stato orgoglioso di rappresentare l’Italia: un Paese che genera vita e che non sbatte la porta in faccia a un bambino.
Ma nello stesso tempo, da questo posto di frontiera, dobbiamo far giungere con forza la nostra voce fino a Bruxelles, per dire all’Europa «ora basta». Non si può approfittare per sempre della nostra umanità.
L’ho detto prima, siamo di fronte a un fenomeno di portata globale ed epocale: è impensabile che sia lasciato interamente sulle spalle del nostro Paese. Ed è impensabile che, all’interno del nostro Paese, sia lasciato sulle spalle di alcuni sindaci di frontiera. È impensabile, ma soprattutto profondamente ingiusto.
Per questo sono felice che la Corte Europea abbia respinto i ricorsi di Slovacchia e Ungheria contro il ricollocamento dei richiedenti asilo da Italia e Grecia. È un primo passo importante. Ora si proceda in tempi rapidi alla «relocation» e si tolgano i fondi europei agli Stati che non accettano migranti. Siamo umani e solidali, ma non siamo stupidi.
E anche nel nostro Paese abbiamo il dovere di farci carico di un’equa distribuzione dell’accoglienza. Non possiamo avere 1.400 migranti in una caserma di Cona, città di 3.000 abitanti, mentre quasi 5.000 Comuni non ne accolgono nemmeno uno.
Non accetteremo mai di assistere impotenti, nelle nostre città, a una guerra tra poveri, tra ultimi e penultimi. Noi, le nostre fragilità, le stiamo affrontando una alla volta, con fatica, sbagliando senz’altro qualcosa, ma anche con qualche buon risultato.
Nel quartiere di Giovanni il terribile, proprio lì signor Presidente, grazie all’Università e al CNR, stiamo creando un polo della ricerca scientifica, abbiamo realizzato un Job Centre per l’orientamento al lavoro, abbiamo avviato il cantiere di un incubatore di impresa e liberato contenitori in ex scuole e mercati, per dare vita a laboratori giovanili e spazi per le start-up. Nei prossimi giorni parte un Piano per i giovani con 12 milioni di euro del PON METRO, per sostenere il ricambio generazionale nel commercio, la nascita di start-up in periferia, i tirocini presso le imprese e il contrasto alla povertà educativa.
Qui a Bari stiamo provando a restituire fiducia e centralità alle nuove generazioni.
A proposito di nuove generazioni voglio salutare qui da questo palco oggi, un gruppo di ragazzi che ho incontrato un anno fa, in quella che è probabilmente la più distante periferia di Bari, San Pio. Avevano occupato un locale pubblico abbandonato. Passavano lì gran parte del loro tempo libero. Ora, grazie a un cantiere scuola organizzato dal Comune insieme a Formedil e all’associazione nazionale dei costruttori e a Confindustria, quei ragazzi hanno imparato un mestiere che gli ha permesso di ristrutturare con le loro mani quel locale. Presto sarà un luogo di ritrovo aperto al pubblico.
Alcuni li chiamano «I ragazzi difficili», ma io preferisco chiamarli con i loro nomi che non sono difficili affatto: Giovanni, Gianluca, Alessio, Luigi, Cosimo… Li chiamo per nome perché con la loro voglia di riscatto rappresentano l’identità più vera di questa città.
Ancora una volta una piccola grande storia. Ancora una volta un esempio di come la collaborazione, la fiducia, l’empatia, il confronto tra istituzioni e cittadini possano creare quel senso di comunità che fa crescere tutti e ciascuno.
Lo stesso senso di comunità, lo stesso spirito di collaborazione, individuale e collettivo, ci sta finalmente conducendo fuori da un’altra storia. Questa volta si tratta di una storia terribile, di morte e sofferenza, di cui stiamo provando a scrivere un lieto fine.
Nessuno potrà riportare in vita gli oltre 400 morti per il mesotelioma causato dall’amianto della Fibronit.
Nessuno potrà cambiare quel passato.
Ma il futuro sì.
Perché la bonifica è quasi terminata e in quell’area di morte sorgerà il parco della vita.
Per questo voglio ringraziare la Regione Puglia che ci è stata sempre accanto.
Ringrazio il comitato Fibronit e l’associazione dei familiari delle vittime, che non hanno mai smesso di chiedere giustizia.
E soprattutto ringrazio te, Maria, che non hai mai mollato di un centimetro, nemmeno nei giorni più difficili. A te, che forse in questo momento mi stai ascoltando, vorrei dire che quando il torrino, simbolo della Fibronit, è venuto giù, scoprendo un pezzo di cielo, in quel cielo mi è sembrato di vedere i tuoi occhi.
E i tuoi occhi sorridevano, di quel sorriso fiero che avevi quando vincevi le tue battaglie. Le nostre battaglie.
Questa città non dimenticherà il tuo sorriso, Maria Maugeri, e continuerà a guardare nella direzione che ci hai indicato. È una promessa che faccio a te e che faccio a tutti i baresi.
Eccole le piccole e le grandi storie che Bari sta provando a scrivere per costruirsi un futuro diverso.
E per raccontarsi in modo diverso, diverso dai luoghi comuni a cui tanti ci vorrebbero condannare, abbiamo voluto questo piccolo filmato, che spero apprezzerete e che ho il piacere di proporvi in anteprima. È lo spot di una città che quest’anno ha ospitato straordinari eventi internazionali e che ha segnato il suo record di presenze turistiche.
“Bari never ends”, dice la nostra campagna. Bari non finisce mai. Mentre, per vostra fortuna, il mio discorso finisce qui. Grazie e buona fiera del Levante a tutti!".
"Signor Presidente del Consiglio, benvenuto a Bari. Autorità, signore e signori, benvenuti alla 81° edizione della Fiera del Levante!
Benvenuti all’inaugurazione della nostra Fiera.
Nostra non solo perché dal 1930 segna la storia di questa città. La Fiera del Levante è nostra perché ci assomiglia.
È intraprendente, come noi baresi. È un incrocio di storie e di popoli diversi, come noi baresi.
Ma soprattutto, la Fiera del Levante non si rassegna, e anche quando tutto sembra perduto combatte e si rialza. Proprio come noi baresi.
Da sindaco sono orgoglioso di questa somiglianza. E lo sono tanto più oggi, perché oggi la Fiera del Levante sa finalmente cosa vuol fare da grande. Perché grande lo sta già diventando.
Il progetto di rilancio della Fiera dimostra ancora una volta che quando le istituzioni collaborano, quando il sud e il nord dialogano, quando le polemiche politiche lasciano il posto al lavoro paziente di cucitura delle relazioni, non esistono più destini segnati e la storia può cambiare.
Per questa nuova e bella storia che cambia ringrazio il Presidente Michele Emiliano, che da sindaco ha avviato questo processo. E ringrazio un altro sindaco, il mio amico Virginio Merola, sindaco di Bologna che spero di avere presto il piacere di accompagnare tra gli stand della nostra Fiera.
Cambiare la storia, e cambiare le storie, quelle piccole, quelle dei cittadini delle nostre comunità. È questo, il dovere della politica. È questo il dovere di noi sindaci, e lo sanno bene i sindaci degli oltre 8.000 Comuni italiani che ho l’onore di rappresentare.
In ogni delibera che discutiamo, in ogni regolamento che modifichiamo, ci sono pezzi di vita di uomini e donne, ragazzi e ragazze in carne ed ossa, ci sono i loro progetti, le loro speranze, i loro sogni. E noi dobbiamo maneggiarli con cura, non solo perché sono l’anima delle nostre comunità. Ma perché sono fragili.
«Siamo tutti frangibili», come dice uno dei personaggi di un recente film di successo. E noi sindaci questa fragilità abbiamo il dovere di custodirla, rispettarla, proteggerla.
Fragile, purtroppo, è spesso anche la terra dove coltiviamo i nostri sogni. Frangibili le case nelle quali li facciamo crescere.
«Acca’ pare Casamicciola», diceva Lucariello davanti al presepe distrutto, in “Natale in casa Cupiello”. Perché a Casamicciola nel 1883, per un terribile terremoto oltre 2.300 persone persero la vita. E quindi per le generazioni successive quelle parole erano diventate sinonimo di tragedia, di lutto, di distruzione.
Sono sicuro che in pochi, tra i ragazzi di Ischia, usassero ancora quell’espressione. E sono sicuro che nessuno di loro immaginava che 134 anni dopo, quell’espressione sarebbe orribilmente tornata di attualità.
E invece… il 21 agosto 2017, ore 20:57, di nuovo vittime, di nuovo feriti, di nuovo case crollate e storie spezzate.
Signor presidente del Consiglio, come rappresentante di tutti i Comuni italiani Le rivolgo oggi una richiesta. Le chiedo di aiutarci a bandire dal vocabolario la parola emergenza. E di sostituirla con le parole prevenzione, regole, difesa del territorio, sicurezza, legalità, ricostruzione, comunità.
Perché quanto più è fragile il nostro territorio tanto più solidi dovranno essere i nostri progetti a lungo termine, tanto più stabile dovrà essere la nostra capacità di pianificare, tanto più robusta dovrà essere la nostra visione.
«Mi vuoi bene? Allora vieni» dice Ciro da sotto le macerie a Mario, il suo soccorritore.
E forse Ciro, 7 anni, non lo sa, ma quella frase non la sta dicendo soltanto alle persone straordinarie che hanno lavorato instancabilmente per salvare vite umane da quel disastro, uomini e donne a cui vorrei mandare il nostro ringraziamento, da sindaco, da cittadino, da padre.
Ciro quella frase la sta dicendo a noi. A tutti i rappresentanti delle istituzioni.
Ascoltate l’audio, se potete. Vi accorgerete dal tono che la sua non è una supplica, assomiglia piuttosto a un ordine. Perché la voce di Ciro da sotto quelle macerie è la voce di tutti i cittadini più fragili, di quelli in difficoltà, di quelli svantaggiati. E ci urla forte: «Che aspetti? Vieni. Tu sei lo Stato. Tu devi volermi bene. Tu mi devi dare una mano!»
Massimo Cacciari, qualche giorno fa ha scritto che «non abbiamo più tempo né alibi (…) la politica non deve ascoltare le domande e ripeterle (…) deve dare risposte e indicare prospettive».
Ecco. Di fronte a Casamicciola, come ad Amatrice, a Genova, la politica ha due strade davanti: la prima è quella di assecondare i professionisti della lamentela, i contestatori a tempo indeterminato, e mettere in scena qualche teatrino da talk show dove nel chiasso generale vale tutto e non rimane nulla.
La seconda è quella di lavorare sodo per mettere in campo progetti concreti perché la sicurezza del territorio diventi una priorità su cui fondare la Politica del nostro Paese. Io scelgo la seconda strada. E chiedo con forza che il progetto Casa Italia non si fermi in campagna elettorale, anzi, proceda più spedito che mai.
È questo l’unico modo credibile che abbiamo per rispondere a Ciro.
E per rispondere a Giovanni. Un altro bambino, che ho incontrato più volte quest’estate. Giovanni ha otto anni e quelli del suo quartiere, il quartiere Libertà, lo chiamano «il terribile» perché non parla con nessuno ma passa le giornate in bici dando calci ai passanti, insultandoli e provando a fare a botte con tutti.
Eppure a luglio Giovanni, per una sera, per qualche minuto, ha lasciato la sua bicicletta e si è fermato nell’oratorio del suo quartiere a guardare un film che parlava di lotta alle mafie.
Eppure un mese fa Giovanni, mentre gli davo le spalle, è venuto ad abbracciarmi e mi ha detto: «Sindaco, tu a me devi guardare».
Da sotto le macerie di una casa crollata, o da sotto le macerie sociali di un quartiere di una città del Sud, Ciro e Giovanni ci dicono la stessa cosa. E ce la dicono con un’enorme dignità.
«Noi siamo qui» ci dicono. «E voi non potete girarvi dall’altra parte, non potete rinchiudervi nel Palazzo, non potete cavarvela con un post su Facebook o con un discorso in tv. Voi dovete venire qui, dovete stare con noi, dovete parlare, guardarci, capirci. È il vostro lavoro. È il vostro dovere».
Quelle macerie sociali del quartiere Libertà stiamo provando a rimuoverle. Stiamo provando, con fatica, a ricostruire. Per questo, quando si è trattato di scegliere i luoghi su cui investire per il Bando del Governo sulle Periferie non abbiamo esitato un attimo.
Insieme agli altri 40 sindaci dell’area metropolitana di Bari abbiamo fatto squadra, e abbiamo candidato tutti insieme le nostre periferie. E il 6 marzo scorso ho avuto l’onore di firmare insieme a Te, Paolo il finanziamento dei primi 24 progetti dei comuni italiani. E il nostro progetto era al primo posto in classifica.
Grazie a quella firma 11 milioni di euro saranno destinati alla riqualificazione di piazze, parchi e giardini del quartier “Libertà”.
E io quella firma voglio dedicarla a Giovanni e a tutti i bambini come lui, condannati a diventare adulti troppo in fretta.
Una firma non può fermare il tempo. Ma se è vero che l’infanzia è il periodo del gioco e dell’allegria, forse quella firma potrà farli restare bambini un po’ di più.
E poi diciamocelo. Giovanni mi sta simpatico perché anche noi sindaci siamo un po’ terribili, un po’ rompiscatole come lui. E come lui chiediamo attenzione, per il bene delle nostre comunità. Paolo lo sa, e quando gli rompo le scatole a nome di tutti i sindaci d’Italia, è sempre comprensivo.
Anzi, approfitto per ringraziarti, Presidente, per aver condiviso le nuove norme sulla sicurezza urbana. Era impensabile per un sindaco provare a dare risposte ai cittadini e a gestire le emergenze quotidiane senza nessuno strumento. Oggi un passo avanti è stato fatto. Abbiamo finalmente una legge che permette al Sindaco di convocare con il Prefetto il Comitato metropolitano per la sicurezza urbana e segnalare i luoghi da sottoporre a tutele e daspo per contrastare i fenomeni di illegalità. Oggi possiamo contare su una maggiore collaborazione istituzionale per garantire più sicurezza ai nostri cittadini.
Collaborare con le istituzioni, lavorare sodo, evitare polemiche. Ecco il metodo che i sindaci propongono al Paese. È una ricetta che conosciamo bene. E che stiamo sperimentando anche nella complicata gestione dei flussi migratori.
Una questione complessa, epocale e di dimensioni planetarie. Basterebbe questa constatazione per evitare di banalizzarla o ridurla ad un’arma da campagna elettorale.
Noi sindaci non dobbiamo trasformarci in imprenditori della paura. Noi sindaci dobbiamo restare quello che siamo: operai della civiltà, che studiano i fenomeni, approfondiscono, conoscono e poi costruiscono con impegno civile, parole nuove, nuove relazioni, storie di convivenza, di rispetto e di regole condivise.
Chi arriva qui da noi non lo fa quasi mai per scelta. E non merita di trovarsi di fronte un Paese ostile, aggressivo, che discrimina il prossimo per il colore della sua pelle o per il continente dal quale proviene.
Il 6 luglio scorso al porto di Bari sono sbarcati 643 migranti. Tra loro c’era un bambino nato in mare qualche giorno prima. Faceva caldo e c’era un sole accecante, eppure quel bambino, tra le braccia di uno dei tanti volontari che gestivano l’accoglienza, ha aperto gli occhi ed è nato una seconda volta. È come se il nostro Paese lo avesse nuovamente partorito, salvandolo da un destino che sembrava segnato.
Su questo ciascuno potrà pensarla come vuole, facendo i conti con la propria coscienza di uomo e di rappresentante delle istituzioni. Ma io, in quel momento, sono stato orgoglioso di rappresentare l’Italia: un Paese che genera vita e che non sbatte la porta in faccia a un bambino.
Ma nello stesso tempo, da questo posto di frontiera, dobbiamo far giungere con forza la nostra voce fino a Bruxelles, per dire all’Europa «ora basta». Non si può approfittare per sempre della nostra umanità.
L’ho detto prima, siamo di fronte a un fenomeno di portata globale ed epocale: è impensabile che sia lasciato interamente sulle spalle del nostro Paese. Ed è impensabile che, all’interno del nostro Paese, sia lasciato sulle spalle di alcuni sindaci di frontiera. È impensabile, ma soprattutto profondamente ingiusto.
Per questo sono felice che la Corte Europea abbia respinto i ricorsi di Slovacchia e Ungheria contro il ricollocamento dei richiedenti asilo da Italia e Grecia. È un primo passo importante. Ora si proceda in tempi rapidi alla «relocation» e si tolgano i fondi europei agli Stati che non accettano migranti. Siamo umani e solidali, ma non siamo stupidi.
E anche nel nostro Paese abbiamo il dovere di farci carico di un’equa distribuzione dell’accoglienza. Non possiamo avere 1.400 migranti in una caserma di Cona, città di 3.000 abitanti, mentre quasi 5.000 Comuni non ne accolgono nemmeno uno.
Non accetteremo mai di assistere impotenti, nelle nostre città, a una guerra tra poveri, tra ultimi e penultimi. Noi, le nostre fragilità, le stiamo affrontando una alla volta, con fatica, sbagliando senz’altro qualcosa, ma anche con qualche buon risultato.
Nel quartiere di Giovanni il terribile, proprio lì signor Presidente, grazie all’Università e al CNR, stiamo creando un polo della ricerca scientifica, abbiamo realizzato un Job Centre per l’orientamento al lavoro, abbiamo avviato il cantiere di un incubatore di impresa e liberato contenitori in ex scuole e mercati, per dare vita a laboratori giovanili e spazi per le start-up. Nei prossimi giorni parte un Piano per i giovani con 12 milioni di euro del PON METRO, per sostenere il ricambio generazionale nel commercio, la nascita di start-up in periferia, i tirocini presso le imprese e il contrasto alla povertà educativa.
Qui a Bari stiamo provando a restituire fiducia e centralità alle nuove generazioni.
A proposito di nuove generazioni voglio salutare qui da questo palco oggi, un gruppo di ragazzi che ho incontrato un anno fa, in quella che è probabilmente la più distante periferia di Bari, San Pio. Avevano occupato un locale pubblico abbandonato. Passavano lì gran parte del loro tempo libero. Ora, grazie a un cantiere scuola organizzato dal Comune insieme a Formedil e all’associazione nazionale dei costruttori e a Confindustria, quei ragazzi hanno imparato un mestiere che gli ha permesso di ristrutturare con le loro mani quel locale. Presto sarà un luogo di ritrovo aperto al pubblico.
Alcuni li chiamano «I ragazzi difficili», ma io preferisco chiamarli con i loro nomi che non sono difficili affatto: Giovanni, Gianluca, Alessio, Luigi, Cosimo… Li chiamo per nome perché con la loro voglia di riscatto rappresentano l’identità più vera di questa città.
Ancora una volta una piccola grande storia. Ancora una volta un esempio di come la collaborazione, la fiducia, l’empatia, il confronto tra istituzioni e cittadini possano creare quel senso di comunità che fa crescere tutti e ciascuno.
Lo stesso senso di comunità, lo stesso spirito di collaborazione, individuale e collettivo, ci sta finalmente conducendo fuori da un’altra storia. Questa volta si tratta di una storia terribile, di morte e sofferenza, di cui stiamo provando a scrivere un lieto fine.
Nessuno potrà riportare in vita gli oltre 400 morti per il mesotelioma causato dall’amianto della Fibronit.
Nessuno potrà cambiare quel passato.
Ma il futuro sì.
Perché la bonifica è quasi terminata e in quell’area di morte sorgerà il parco della vita.
Per questo voglio ringraziare la Regione Puglia che ci è stata sempre accanto.
Ringrazio il comitato Fibronit e l’associazione dei familiari delle vittime, che non hanno mai smesso di chiedere giustizia.
E soprattutto ringrazio te, Maria, che non hai mai mollato di un centimetro, nemmeno nei giorni più difficili. A te, che forse in questo momento mi stai ascoltando, vorrei dire che quando il torrino, simbolo della Fibronit, è venuto giù, scoprendo un pezzo di cielo, in quel cielo mi è sembrato di vedere i tuoi occhi.
E i tuoi occhi sorridevano, di quel sorriso fiero che avevi quando vincevi le tue battaglie. Le nostre battaglie.
Questa città non dimenticherà il tuo sorriso, Maria Maugeri, e continuerà a guardare nella direzione che ci hai indicato. È una promessa che faccio a te e che faccio a tutti i baresi.
Eccole le piccole e le grandi storie che Bari sta provando a scrivere per costruirsi un futuro diverso.
E per raccontarsi in modo diverso, diverso dai luoghi comuni a cui tanti ci vorrebbero condannare, abbiamo voluto questo piccolo filmato, che spero apprezzerete e che ho il piacere di proporvi in anteprima. È lo spot di una città che quest’anno ha ospitato straordinari eventi internazionali e che ha segnato il suo record di presenze turistiche.
“Bari never ends”, dice la nostra campagna. Bari non finisce mai. Mentre, per vostra fortuna, il mio discorso finisce qui. Grazie e buona fiera del Levante a tutti!".