di VITTORIO POLITO - Che i baresi siano stati sempre amanti del pesce e Bari sia stata sempre una città con un mare ricco di pesce può considerarsi un fatto proverbiale sostenuto anche da Orazio duemila anni fa nei versi di una sua satira che definiva la nostra città “pescosa”.
Vito Antonio Melchiorre (1992-2010), noto storico e studioso barese, racconta nel suo libro “Storie baresi” (Levante) una curiosa nota di cronaca che mette in risalto, appunto, un episodio che negava ai baresi il piacere di gustare i prodotti del mare.
Nel 1796 i baresi erano esasperati dalla cattiva condotta dei proprietari delle “paranze che allontanandosi e portandosi altrove a pescare, lasciavano perire esso pubblico”. Le lamentele non tardarono ad apparire fondate alle autorità, tanto che l’Udienza di Trani (una sorta di Tribunale), considerando che la famiglie avevano pur diritto di usufruire dei prodotti del “loro” mare, ordinò a tutti i proprietari dei pescherecci che almeno quattro “paranze” al mese pescassero “per comodo e per servizio” della popolazione barese, fissando per gli inadempienti “la pena di 500 ducati, 6 mesi di carcere e la confisca della barca”.
Ma dopo un paio d’anni la norma cominciava a non essere osservata ed allora i sindaci Carlo Tanzi e Giuseppe de Ritola fecero censire le “paranze” che risultarono in numero di 24 e con pittoreschi soprannomi tipo “spagosottile” e “ficanegra”. Due magistrati, confermando le disposizioni dell’Udienza e affinché il servizio si espletasse in piena regola, pubblicarono un bando con i nomi dei 24 padroni di paranze, indicando i turni assegnati mensilmente, dal 3 gennaio al 1° settembre 1791, fino cioè all’entrata in carica della nuova amministrazione. Il bando fu affisso “nel solito luogo”, probabilmente piazza Mercantile, perché tutti ne avessero conoscenza, costringendo i pescatori ad approvvigionare i mercati baresi.