La recensione: Dunkirk
di FREDERIC PASCALI - Christopher Nolan torna dietro la macchina da presa dirigendo una di quelle pellicole destinate a entrare, passando dalla porta principale, nella memoria storica dell’ultimo decennio cinematografico. Il genere è quello del film di guerra, una delle piste più battute del cinema americano, che, tuttavia, sotto la regia di Nolan si compone di materia sopraffina puntando dritto alle viscere dell’animo umano, lì dove si annidano i confini tra speranza e disperazione.
Con il piglio della narrazione bellica dettata con l’eleganza e la sincerità di un Marc Bloch, la sceneggiatura si snoda su storie adiacenti tutte convergenti in un’unica trama con la bussola delle emozioni orientata verso i primissimi piani dei protagonisti, macerati e svelati dalla bella fotografia rugginosa di Hoyte van Hoytema.
I particolari curati con attenzione ci portano nella periferia di Dunkerque in un giorno della fine di maggio del 1940. Il secondo conflitto mondiale è esploso da quasi un anno e le truppe corazzate tedesche sfondando nel Nord del Belgio hanno tagliato in due il fronte degli anglo-francesi. Ora sulla spiaggia della Normandia ci sono 400000 soldati in attesa di essere evacuati. Tra di loro c’è Tommy impegnato allo stremo nella sua disperata settimana per sopravvivere.
Più in la, nel mare, c’è la piccola imbarcazione da diporto di Mr. Dawson, con il figlio e un suo amico per un giorno sono coinvolti per dare il loro contributo a quello strenuo tentativo di salvataggio. Sopra quello stesso mare per un’ora vola Farrer insieme alla sua formazione di Spitfire, vanno a caccia di aerei tedeschi per salvare i convogli alleati. Il loro tempo cambierà il destino di molti.
È una specie di vertigine, cesellata con la sapienza dell’artigiano di valore, quella che sostiene l’impalcatura a orologeria della struttura narrativa creata da Nolan.
La stessa coinvolgente musica del prediletto Hans Zimmer assume il compito,non affatto corollario, di costruire il dirompente finale all’unisono della storia. Eccellenti tutti gli interpreti a cominciare da Fionn Whitehead, “Tommy”, per finire con Kenneth Branagh, “Comandante Bolton”. Non si sottraggono agli elogi né il montaggio, a firma di Lee Smith, e né la minuziosa scenografia curata da Nathan Crowley.
Con il piglio della narrazione bellica dettata con l’eleganza e la sincerità di un Marc Bloch, la sceneggiatura si snoda su storie adiacenti tutte convergenti in un’unica trama con la bussola delle emozioni orientata verso i primissimi piani dei protagonisti, macerati e svelati dalla bella fotografia rugginosa di Hoyte van Hoytema.
I particolari curati con attenzione ci portano nella periferia di Dunkerque in un giorno della fine di maggio del 1940. Il secondo conflitto mondiale è esploso da quasi un anno e le truppe corazzate tedesche sfondando nel Nord del Belgio hanno tagliato in due il fronte degli anglo-francesi. Ora sulla spiaggia della Normandia ci sono 400000 soldati in attesa di essere evacuati. Tra di loro c’è Tommy impegnato allo stremo nella sua disperata settimana per sopravvivere.
Più in la, nel mare, c’è la piccola imbarcazione da diporto di Mr. Dawson, con il figlio e un suo amico per un giorno sono coinvolti per dare il loro contributo a quello strenuo tentativo di salvataggio. Sopra quello stesso mare per un’ora vola Farrer insieme alla sua formazione di Spitfire, vanno a caccia di aerei tedeschi per salvare i convogli alleati. Il loro tempo cambierà il destino di molti.
È una specie di vertigine, cesellata con la sapienza dell’artigiano di valore, quella che sostiene l’impalcatura a orologeria della struttura narrativa creata da Nolan.
La stessa coinvolgente musica del prediletto Hans Zimmer assume il compito,non affatto corollario, di costruire il dirompente finale all’unisono della storia. Eccellenti tutti gli interpreti a cominciare da Fionn Whitehead, “Tommy”, per finire con Kenneth Branagh, “Comandante Bolton”. Non si sottraggono agli elogi né il montaggio, a firma di Lee Smith, e né la minuziosa scenografia curata da Nathan Crowley.