Storia: se i Vitelios avessero sconfitto Roma
di FRANCESCO GRECO - E se invece di Atene avesse vinto Troia? O Sparta? Se Cesare non fosse riuscito a espugnare le Gallie? Se a Lepanto non avessero prevalso i Cristiani e i briganti avessero tenuto testa al boia Cialdini? Se il Terzo Reich fosse uscito vincitore dall’ultima guerra? L’elenco dei “se” potrebbe continuare all’infinito.
La Storia è cosparsa di ispidi interrogativi e stridenti contraddizioni, che l’uomo vi riversa in un transfert che surroga la sua complessità.
Tra cronisti embedded e agiografi, i falsi (oggi fake-news) sono così diffusi che Cesare si scrisse da solo quel che era accaduto nelle Gallie (“De bello gallico”), temendo le cronache dei contemporanei e ancor più le interpretazioni dei posteri usate e adattate al rispettivo momento storico.
La Storia la scrivono i vincitori acconciandola alle mode, censurando o enfatizzando a ulteriore umiliazione degli sconfitti. E se una volta tanto la scrivessero i perdenti, vittime di pulizie etniche, pogrom, soffocati sotto le infinite sedimentazioni della damnatio memoriae?
Deve averlo pensato il molisano (Isernia, 1959) Nicola Mastronardi in “Viteliù” (Il nome della libertà), Itaca Edizioni, Bologna 2012, pp. 488, euro 18,00, romanzo storico baciato dal successo, giunto alla quarta edizione e forse prossimo, costosissimo film.
Sotto l’aspetto narrativo è scritto benissimo, mano ferma e sapida: non si riesce a posarlo sino alla fine. Lo scrittore tiene in mano la storia e scava la psicologia, l’antropologia, la sociologia dei personaggi. Riesce a catturare sulla pagina l’esprit di un’epoca fin nella sua quotidianità, restituirci l’architettura sociale, i sentimenti, le passioni, le ambizioni, i giochi di potere, la geo-politica, le sovrapposizioni etniche (Roma è città melting-pot per dna, i razzismi di oggi sono ridicoli), la spiritualità, le divinità, i miti e i riti.
La password stilistica evocativa ti fa passare davanti le immagini con un nitore sorprendente, a svelare stati d’animo, istinti, fierezze. Il postulato di partenza è che se i “feroces Samnites” fossero riusciti a sottomettere la “Magna Civitas” la Storia avrebbe cambiato corso.
L’Impero che si estendeva dal sud della Spagna alla Gallia peninsulare, che aveva sconfitto Annibale dando fuoco a Cartagine, annientò i “terribili, indomiti nemici della Repubblica”, i ”Sanniti nemico per Silla e i Romani di molte e molte generazioni”.
Non solo, ma tutti i popoli italici che ostacolavano il disegno imperiale, inclusi – un secolo e mezzo prima - i Messapi di stanza a Brindisi (rotte per il Mediterraneo). L’Impero era una necessità storica, ma se nell’82 a. C. i Sanniti alleati di Caio Mario nella guerra civile contro Silla avessero distrutto Roma, cosa sarebbe accaduto? Invece restò il fantasma delle “Forche Caudine” e di Porta Collina.
Il romanzo è il racconto della rivincita, la storia, l’epos (mentre Spartacus a sua volta si ribella a Roma). L’abilità di Mastronardi sta nel far credere che i Sanniti e gli italici hanno avuto in mano i destini dell’Impero e che erano portatori, oltre che di eroismo, orgoglio e amor patrio, di valori e civiltà. Il che è oggettivamente una forzatura: se condividiamo l’afflato anti-globalizzazione, occorre però fra notare l’esiguità del loro “pensiero”, il fuoco greco: i filosofi, i poeti, gli scultori, gli architetti, i giuristi sanniti, ecc.
Il loro errore forse è stato di non pensare in grande, di non avere un sogno, una visione totalizzante da opporre a Roma. Non restava che l’oblio, da dove oggi Mastronardi li disseppellisce restituendoli a nuova vita.
Il concept del romanzo però resta esile: sulla sete di vendetta, lo splendore del passato non si costruiscono civiltà, Repubbliche, imperi. Mentre i Sanniti pascolavano capre e costruivano capanne di fango, Roma “capitale”, “sozza e ingorda Lupa” si confrontava e si contaminava col pensiero greco, integrandolo. Costruiva acquedotti imponenti, strade maestre per far correre i soldati, aveva filosofi, poeti, giuristi e quelli greci divennero suoi cittadini spargendo il seme della conoscenza nell’Urbe, applaudì Scipione, portò Cleopatra come “trofeo”, ecc.
“Viteliù” è un romanzo revisionista, che oppone un demo (i Vitelios figli del toro) ricco di energia alla globalizzazione avendone ontologicamente paura, non avendo strumenti per contrastarla né gestirla.
Un’operazione culturale necessaria, di grande respiro e dignità, fascinosa nella calligrafia. Utile alla nostra ricomposizione identitaria, antropologica, sociologica, spirituale. Il determinismo storico è tuttavia implacabile con gli sconfitti che pur abbandonati dagli déi capricciosi, lottano per dire al mondo e agli uomini del loro splendore.
La Storia è cosparsa di ispidi interrogativi e stridenti contraddizioni, che l’uomo vi riversa in un transfert che surroga la sua complessità.
Tra cronisti embedded e agiografi, i falsi (oggi fake-news) sono così diffusi che Cesare si scrisse da solo quel che era accaduto nelle Gallie (“De bello gallico”), temendo le cronache dei contemporanei e ancor più le interpretazioni dei posteri usate e adattate al rispettivo momento storico.
La Storia la scrivono i vincitori acconciandola alle mode, censurando o enfatizzando a ulteriore umiliazione degli sconfitti. E se una volta tanto la scrivessero i perdenti, vittime di pulizie etniche, pogrom, soffocati sotto le infinite sedimentazioni della damnatio memoriae?
Deve averlo pensato il molisano (Isernia, 1959) Nicola Mastronardi in “Viteliù” (Il nome della libertà), Itaca Edizioni, Bologna 2012, pp. 488, euro 18,00, romanzo storico baciato dal successo, giunto alla quarta edizione e forse prossimo, costosissimo film.
Sotto l’aspetto narrativo è scritto benissimo, mano ferma e sapida: non si riesce a posarlo sino alla fine. Lo scrittore tiene in mano la storia e scava la psicologia, l’antropologia, la sociologia dei personaggi. Riesce a catturare sulla pagina l’esprit di un’epoca fin nella sua quotidianità, restituirci l’architettura sociale, i sentimenti, le passioni, le ambizioni, i giochi di potere, la geo-politica, le sovrapposizioni etniche (Roma è città melting-pot per dna, i razzismi di oggi sono ridicoli), la spiritualità, le divinità, i miti e i riti.
La password stilistica evocativa ti fa passare davanti le immagini con un nitore sorprendente, a svelare stati d’animo, istinti, fierezze. Il postulato di partenza è che se i “feroces Samnites” fossero riusciti a sottomettere la “Magna Civitas” la Storia avrebbe cambiato corso.
L’Impero che si estendeva dal sud della Spagna alla Gallia peninsulare, che aveva sconfitto Annibale dando fuoco a Cartagine, annientò i “terribili, indomiti nemici della Repubblica”, i ”Sanniti nemico per Silla e i Romani di molte e molte generazioni”.
Non solo, ma tutti i popoli italici che ostacolavano il disegno imperiale, inclusi – un secolo e mezzo prima - i Messapi di stanza a Brindisi (rotte per il Mediterraneo). L’Impero era una necessità storica, ma se nell’82 a. C. i Sanniti alleati di Caio Mario nella guerra civile contro Silla avessero distrutto Roma, cosa sarebbe accaduto? Invece restò il fantasma delle “Forche Caudine” e di Porta Collina.
Il romanzo è il racconto della rivincita, la storia, l’epos (mentre Spartacus a sua volta si ribella a Roma). L’abilità di Mastronardi sta nel far credere che i Sanniti e gli italici hanno avuto in mano i destini dell’Impero e che erano portatori, oltre che di eroismo, orgoglio e amor patrio, di valori e civiltà. Il che è oggettivamente una forzatura: se condividiamo l’afflato anti-globalizzazione, occorre però fra notare l’esiguità del loro “pensiero”, il fuoco greco: i filosofi, i poeti, gli scultori, gli architetti, i giuristi sanniti, ecc.
Il loro errore forse è stato di non pensare in grande, di non avere un sogno, una visione totalizzante da opporre a Roma. Non restava che l’oblio, da dove oggi Mastronardi li disseppellisce restituendoli a nuova vita.
Il concept del romanzo però resta esile: sulla sete di vendetta, lo splendore del passato non si costruiscono civiltà, Repubbliche, imperi. Mentre i Sanniti pascolavano capre e costruivano capanne di fango, Roma “capitale”, “sozza e ingorda Lupa” si confrontava e si contaminava col pensiero greco, integrandolo. Costruiva acquedotti imponenti, strade maestre per far correre i soldati, aveva filosofi, poeti, giuristi e quelli greci divennero suoi cittadini spargendo il seme della conoscenza nell’Urbe, applaudì Scipione, portò Cleopatra come “trofeo”, ecc.
“Viteliù” è un romanzo revisionista, che oppone un demo (i Vitelios figli del toro) ricco di energia alla globalizzazione avendone ontologicamente paura, non avendo strumenti per contrastarla né gestirla.
Un’operazione culturale necessaria, di grande respiro e dignità, fascinosa nella calligrafia. Utile alla nostra ricomposizione identitaria, antropologica, sociologica, spirituale. Il determinismo storico è tuttavia implacabile con gli sconfitti che pur abbandonati dagli déi capricciosi, lottano per dire al mondo e agli uomini del loro splendore.