di FREDERIC PASCALI - Un vicolo cieco senza possibilità di fuga, costretti a fare i conti con l’inesorabile defluire della paura di essere protagonisti del peggiore dei propri incubi.
Come sempre nel cinema di Tomas Alfredson si ha il tempo per pensare, per prendere le misure su quello che è accaduto e su quello che accadrà, ma non si ha il tempo per schivare l’angoscia che attanaglia ogni sequenza con il senso profondo del disagio che prelude alla certezza della perdita. La macchina da presa è un giavellotto che a lungo si libra nell’aria senza mostrare l’intenzione di posarsi per terra, lasciando l’illusione di un sospeso con il quale fino all’ultimo il regista svedese gioca. L’adattamento di uno dei romanzi gialli più riusciti di Jo NesbØ diventa così una lenta, forse troppo, presa di coscienza dell’efferatezza del male.
Harry Hole è uno dei più brillanti e famosi poliziotti della Norvegia ma da tempo non è più lo stesso, incupito e dedito al vizio dell’alcool. La misteriosa scomparsa di una donna nella sera di una copiosa nevicata mette in allarme il suo senso investigativo, tanto più dopo aver ricevuto un biglietto anonimo recante come firma il disegno di un pupazzo di neve. Al suo fianco nell’indagine c’è la giovane detective Katrine Bratt che lo mette sulle tracce di un vecchio caso di vent’anni prima.
“L’uomo di neve” si lascia vedere con interesse seppure la sceneggiatura scritta da Peter Straughan, Hossein Amini e SØren Svelstrup qua e là indugi troppo nell’autocompiacimento dilatando il compasso dei dialoghi e ammiccando fino all’eccesso con lo spettatore sull’identità del cattivo. Non hanno colpe gli interpreti principali capeggiati da un sempre più iconico Michael Fassbender, “Harry Hole”,dal bravo Jonas Karlsson, “Mathias”, e dalle due splendide protagoniste femminili: Charlotte Gainsbourg, “Rakel”, e Rebecca Ferguson, “Katrine”. Nel cast, in un ruolo secondario,”Rafto”, dice la sua anche un eccelso Val Kilmer.
Meravigliosa la fotografia di Dion Baebe, che bilancia al meglio i toni caldi con quelli freddi lavorando di rigore sui numerosi flashback, coinvolgenti le musiche di Marco Beltrami, in sintonia perfetta con la narrazione, ivi compresa la sempiterna “Pop Corn”.
Come sempre nel cinema di Tomas Alfredson si ha il tempo per pensare, per prendere le misure su quello che è accaduto e su quello che accadrà, ma non si ha il tempo per schivare l’angoscia che attanaglia ogni sequenza con il senso profondo del disagio che prelude alla certezza della perdita. La macchina da presa è un giavellotto che a lungo si libra nell’aria senza mostrare l’intenzione di posarsi per terra, lasciando l’illusione di un sospeso con il quale fino all’ultimo il regista svedese gioca. L’adattamento di uno dei romanzi gialli più riusciti di Jo NesbØ diventa così una lenta, forse troppo, presa di coscienza dell’efferatezza del male.
Harry Hole è uno dei più brillanti e famosi poliziotti della Norvegia ma da tempo non è più lo stesso, incupito e dedito al vizio dell’alcool. La misteriosa scomparsa di una donna nella sera di una copiosa nevicata mette in allarme il suo senso investigativo, tanto più dopo aver ricevuto un biglietto anonimo recante come firma il disegno di un pupazzo di neve. Al suo fianco nell’indagine c’è la giovane detective Katrine Bratt che lo mette sulle tracce di un vecchio caso di vent’anni prima.
“L’uomo di neve” si lascia vedere con interesse seppure la sceneggiatura scritta da Peter Straughan, Hossein Amini e SØren Svelstrup qua e là indugi troppo nell’autocompiacimento dilatando il compasso dei dialoghi e ammiccando fino all’eccesso con lo spettatore sull’identità del cattivo. Non hanno colpe gli interpreti principali capeggiati da un sempre più iconico Michael Fassbender, “Harry Hole”,dal bravo Jonas Karlsson, “Mathias”, e dalle due splendide protagoniste femminili: Charlotte Gainsbourg, “Rakel”, e Rebecca Ferguson, “Katrine”. Nel cast, in un ruolo secondario,”Rafto”, dice la sua anche un eccelso Val Kilmer.
Meravigliosa la fotografia di Dion Baebe, che bilancia al meglio i toni caldi con quelli freddi lavorando di rigore sui numerosi flashback, coinvolgenti le musiche di Marco Beltrami, in sintonia perfetta con la narrazione, ivi compresa la sempiterna “Pop Corn”.