(ph: M.Ruffini) |
Mai come questa volta non riteniamo di dilungarci con le dovute presentazioni, visto che lo chef Bruno Barbieri davvero non ne ha bisogno. Godetevi dunque le parole dello chef e lasciatevi coinvolgere dal suo straordinario amore per il cibo e la cucina.
D: Dunque Chef, partiamo dalla sua presenza qui in Puglia qualche mese fa in occasione delle registrazioni delle nuove puntate della settima edizione di “Masterchef”. Cosa ci può raccontare di questa nostra amata e bellissima Puglia…
R:«Guarda della puntata che abbiamo registrato in Puglia non posso dirti niente altrimenti mi arrestano :) però della Puglia posso dirti che è un territorio che amo moltissimo, che conosco abbastanza bene, ci vengo spesso anche perché ho tanti amici, inoltre ci sono tanti ristoranti meravigliosi dove si mangia divinamente bene. Poi vorrei dire un’altra cosa, io nelle mie brigate di cucina, nell’arco di tutti questi anni e quindi anche in futuro, un cuoco pugliese dentro lo voglio sempre avere, perché hanno un’anima buona, bella e devota a questo mestiere, un mestiere che fanno con grande caparbietà, insomma, sono persone che non si tradiscono mai, persone che fanno questo mestiere alla grande. Ci sono tanti chef che hanno lavorato con me che oggi sono protagonisti di questo mestiere in giro per il mondo e questo mi fa davvero piacere, questo per dire che tutte le volte che vengo in Puglia, il tempo è sempre troppo poco per poter esserci…».
D: Quindi ha avuto modo di apprezzare il piatto simbolo della Puglia, il famoso 'riso patate e cozze'…
R:«Certo! Il riso patate e cozze ogni tanto viene inserito anche nei miei menù ed è un piatto che a me piace molto. Aldilà di quello che uno può vedere nella ristorazione italiana, io credo che proporre un piatto è un po’ raccontare una storia, una storia che racconti ai tuoi ospiti, alle persone che vuoi bene, ai clienti del tuo locale, ma significa soprattutto raccontare la storia di altre regioni, di altri paesi. Questa è una cosa molto interessante, soprattutto da un punto conoscitivo delle cose. Ad esempio da noi a Bologna - dove proprio nel 2016 ho aperto il bistro “Il Fourghetti” - vengono tanti turisti che arrivano da altri paesi, che magari attraverso un piatto di un'altra regione riescono a capire che forse è il momento di andarci, quindi un turista che visita l’Emilia Romagna e mangia un piatto pugliese, magari gli viene voglia di visitare la Puglia. Questo per dire che per fare grande una cucina e la cucina italiana bisogna conoscere la storia del cibo del nostro paese. Certo attraverso creatività e modernità si possono rivisitare tante ricette, non dimenticandoci da dove si è partiti, e non dimenticando la storia di quel piatto».
D: Quindi possiamo dire che Masterchef non solo sforna nuovi talenti, ma è anche un modo per far conoscere altri territori e altre zone dell’Italia fino ad ora inesplorati…
R:«Io credo che Masterchef abbia un po’ sdoganato questo discorso in televisione, l’idea di far arrivare attraverso il programma il raccontare la storia di tanta gente che comunque ha delle radici profonde legate al proprio territorio, al proprio paese, il raccontare di posti sperduti che magari nessuno conosce che proprio attraverso Masterchef, e quindi attraverso i programmi che noi facciamo, vengono visti in altri parti del mondo. Io credo che questo sia un messaggio positivo, per il nostro paese aldilà di quello che può essere la spettacolarizzazione di un programma. Io credo che Masterchef sia stato forse il primo programma della cucina in Italia che ha raccontato veramente la storia e che l’ha fatta raccontare anche alla gente, questo è importante, perché non conta solo la firma dei giudici e dello chef che va in cucina e in televisione, ma è anche la storia di tanta gente che arrivano anche da paesi sperduti – che magari neanche noi conosciamo – che raccontano la territorialità, è questo è molto importante».
D: Chef, non crede che i tanti programmi legati per alla cucina possano in qualche modo creare una saturazione dell’argomento, e quindi nel tempo stancare il telespettatore?
R:«Io credo di no, nel senso, che ognuno alla fine racconta la cucina al proprio modo, alla propria maniera, l’importante è raccontare un messaggio vero, una storia positiva, un messaggio che possa coinvolgere non solo se stessi, ma anche il territorio, il paese, la gente, i piccoli produttori, cosi come avviene a Masterchef. Noi a Masterchef raccontiamo la storia di tanti piccoli produttori, che non hanno la forza di arrivare in un mercato importante del food nel mondo, che è legato comunque alle multinazionali, al business. Un piccolo produttore, che so della Puglia, che produce un olio extravergine importante, fatto come Dio comanda, delle volte non c’è la fa ad arrivare in un mercato importante. Ecco a quel punto un programma televisivo può avere la funzione di lanciarlo e dare quindi un messaggio importante per l’economia italiana».
D: Chef, quando ha capito che la cucina sarebbe stata la tua vita?
R:«Io ho vissuto in una famiglia dove il cibo ha avuto un ruolo importante. I miei nonni mi hanno insegnato a vivere essendo autosufficienti, ci producevamo tutto in casa. La scelta di fare questo mestiere che mi piaceva da morire, che raccontava la storia della mia famiglia, anche se noi non siamo una famiglia di ristoratori, però in un certo qual senso è come se lo fossimo. Inoltre un'altra delle mie passioni era quella di viaggiare, quindi ho capito che queste due cose potevano andare di pari passo. Quindi me ne sono andato all’avventura. Però sono stato una persona sempre molto tosta, determinata, e che voleva raggiungere degli obbiettivi. Ho capito che era necessario farlo in un certo modo e soprattutto in silenzio. Cosa voglio dire…voglio dire che sono sempre stato come una carta assorbente, con le persone e con gli chef che raccontavano una storia importante. Ecco, essere al fianco di questa gente, assorbire il loro pensiero, il loro modo di vivere, il loro modo di fare, il loro modo di lavorare… io ho sempre pensato che un giorno sarebbe venuto il mio momento».
D: Quanto coraggio ci vuole a diciassette anni fare le valigie e andare a lavorare lontana da casa e lontano dalla propria famiglia?
R:«Sono partito per gli Stati Uniti che non ero ancora maggiorenne, e sapevo che là avrei imparato il mio lavoro, avrei imparato a vivere, avrei imparato ad essere più grande, a livello umano, l’essere via da casa, il cercare di mantenermi da solo, di non essere alle dipendenze di nessuno. Io dico questo ai ragazzi di, ancora oggi che ho cinquant’anni, io ragiono e vivo come avessi ancora la loro età e quindi con quella voglia intatta di scoprire, di fare, di migliorarmi, di non mollare mai, di sperimentare, la voglia di conoscere la gente. Io dico sempre, che quando si inizia un percorso soprattutto all’estero l’importante è essere onesti con se stessi, capire chi ti ospita, entrare in quel mondo lì, quando hai tutto questo nella testa, poi tutto ti viene facile. Poi è normale che ci vuole un po’ di talento, anche perché io sono convinto che cuochi si nasce e non si diventa. Poi è chiaro che si possono imparare tecniche e quant’altro, però questo è un mestiere che c’è lo devi avere nelle mani, nel dna, nel sangue, nell’anima. Questo è un mestiere che se non lo senti, non puoi farlo perché è un mestiere duro fatto di sacrifici, fatto di impegni e di rinunce. Io inoltre sono stato un po’ uno zingaro sono sempre stato in giro per il mondo, ho conosciuto il mondo e un mondo, ho conosciuto gente, e quindi questo mi ha fatto capire che ho avuto fortuna, la fortuna di scegliere il mestiere che amo incontrare gente che mi ha insegnato un mestiere, di essere al posto giusto nel momento giusto. Non è facile tutto questo, quindi io sono grato a tutto questo nel senso che la fortuna bisogna sparla coglierla. Poi oggi i ragazzi che si approcciano a questo mestiere ci vedono come dei personaggi, anche se in fondo lo siamo diventati. Però attenzione, io dico sempre che per arrivare dove è arrivato Bruno Barbieri, Carlo Cracco, Antonino Cannavacciuolo, Joe Bastianich, tutti questi grandi chef qua ci sono dietro tantissimi anni di lavoro».
D: E i giovani di oggi sono ancora capaci di fare sacrifici?
R:«Io credo di si. I giovani hanno ancora voglia di fare sacrifici e di sacrificarsi. Io credo che ci sono ancora oggi giovani che hanno voglia di essere protagonisti della loro vita. Oggi il mio mestiere è appunto questo, scoprire talenti ed è una cosa che mi fa impazzire moltissimo, perché nella mia vita sono stato anche aiutato da tanti chef che mi hanno insegnato il mestiere, e l’idea di incontrare dei giovani in cui riesco a capire che hanno qualcosa nell’anima, che sono in grado di fare questo mestiere, ecco, questo a me piace moltissimo, dare la possibilità a qualcuno di potercela fare. Ecco quando hai la possibilità di lavorare al fianco di gente che sa fare questo mestiere credo che per un giovane sia fondamentale per poter diventare qualcuno».
D: Chef, come è cambiata la cucina e il modo di stare in cucina negli anni?
R:« È cambiato molto, una volta un cuoco andava nella cucina e buttava via la chiave e ci arrivava fino a cinquanta, sessant’anni. oggi non funziona più così. Oggi un chef deve fare mille altre cose, deve essere imprenditore di se stesso, deve andare alle conferenze, scrivere libri di cucina, fare la televisione, gestire decina di ristoranti in giro per il mondo. Basti pensare a quello che fa gordon ramsay, dico lui per dire anche Bastianich e tanti altri chef, che hanno tanti ristoranti in giro per il mondo, è chiaro che non possono essere ovunque, ma sono comunque locali che raccontano una storia. Gli italiani secondo me devono smettere di pensare di non andare a mangiare ad esempio da Vissani perchè sta sempre in televisione e quindi non sta mai nel ristorante. Non è più così, il mestiere dello chef è cambiato, oggi uno chef vola da New York a Parigi, è un mestiere che è cambiato, che è cambiato in bene, un cuoco non può stare sempre dentro una cucina, deve uscire e vedere quello che succede fuori, cosa c’è intorno, scoprire nuovi prodotti, e sapere cosa accade nel mondo. Tutto questo è importante per costruire e lanciare dei messaggi. È cambiato inoltre il modo di cucinare, oggi abbiamo un modo di cucinare più moderno, si sono abbattuti i tempi, ci sono state contaminazioni nel mondo incredibili che hanno raccontato e raccontano una cucina moderna. Io credo che bisogna sempre tenere a mente il discorso della storia, credo sia questo il punto focale principale di questo cambiamento».
D: Quanta fatica c’è dietro la conquista di una stella Michelin?
R:«C’è una fatica colossale, la Michelin, le stelle Michelin cambiano la vita di un cuoco e soprattutto cambiano la storia di un cuoco. Oltre a farti entrare in certi meccanismi, ti fanno conoscere nel mondo, è un lavoro duro, difficile. Io nella mia carriera ne ho prese sette, e devo dire che è stato molto difficile. Però il discorso è questo, oltre ad essere un bravo chef, bisogna essere un buon allenatore, perché dico questo, perché il lavoro di cuoco è un lavoro di squadra, devi essere bravo a costruire il gruppo, la tua brigata di cucina, bisogna saper essere in grado di motivare la gente, saperli fargli crescere, fargli capire che lo chef ha le idee ma che ha anche attorno a sé un gruppo di lavoro importante. Altrimenti diventa difficile tutto. Io penso che le stelle Michelin sono importanti perché ti danno gli stimoli per far meglio, ti aiutano a cercare nuovi orizzonti gastronomici, poi è chiaro, una stella può anche essere tolta, a me fortunatamente non è mai successa, però quando mi è capitato di sentire di uno chef che ha perso una stella è sempre un dramma, è difficile viverla. Auguro a tutti i cuochi del mondo di non vivere mai questa situazione, purtroppo anche in questo mestiere c’è il bello e il brutto.
D: Però anche il ristorante è importante nella conquista della stella Michelin?
R:«La stella Michelin è il coronamento di un lavoro, di un gruppo di persone, dove il ristorante è fondamentale. Alla fine può anche essere che non ne prendi neanche una però la cosa importante è non mollare mai in questo lavoro come nella vita».
D: Chef, parliamo un po’ di “Masterchef” e quindi dell’addio di uno dei giudici storici del programma, stiamo parlando di Carlo Cracco. Come è cambiato il programma e cosa ha portato in dote il nuovo giudice Antonia Klugmann?
R:«L’addio di Carlo Cracco è stato per noi per noi una sorpresa ma potrebbe essere un arrivederci più che un addio, magari chissà il prossimo anno tornerà lui, questo non lo so, non ho idea su quello che farà Carlo Cracco. Lui quest’anno era impegnato in una grande impresa che era quella di aprire una grande location a Milano quindi ha dovuto fare delle scelte. L’arrivo di Antonia Klugmann a me è piaciuto molto perché intanto è una donna, ha dato una ventata di nuova, avere una donna all’interno di una giuria come quella di Masterchef è stato molto divertente, devo dire che ci siamo molto divertiti, è una ragazza molto strutturata, molto forte, molto intelligente, una ragazza che è riuscita ad entrare nei meccanismi del programma sin da subito, ha fatto un ottimo lavoro, quindi vi dico che ne vedrete delle belle. Certo ci saranno dei paragoni con Carlo Cracco, ma questo sarebbe successo comunque anche in caso di addio mio, di Joe o Antonino. Aldilà di questo, credo che insieme abbiamo fatto un ottimo lavoro, ci siamo trovati subito bene, l’idea di una donna nel trio non è stata affatto male. Io credo che anche lei si sia divertita, noi anche quindi che dire, ci rivedremo tutti nella prossima edizione che verrà trasmessa a dicembre, e vedrete che vi divertirete tutti».
D: Come mai i più grandi chef sembrano essere in prevalenze uomini, nonostante la cucina sia donna, 'femmina', visto che sin da piccoli siamo abituati a vedere le nostre mamme, le nostre nonne alle prese coi fornelli…
R:«Ma, non è vero che i grandi chef sono solo uomini, ci sono donne che hanno firmato grandi progetti, chiaramente è un mestiere duro e difficile, però devo dire che ci sono molte giovani ragazze che sono protagoniste nel panorama gastronomico italiano, che firmano grandi progetti…».
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