di FRANCESCO GRECO - Una Napoli delirante e magica, dolente e tragica, innocente e aspra come location, e una prosa ipnotica e abbacinante, magnetica, magmatica, che ti avviluppa come un mosto denso e forte, ti conquista, seduce, commuove con un’irresistibile malia.
E’ anche qui il “segreto” del successo mondiale di Elena Ferrante, al di là del mistero – incomprensibile - della sua identità. Incomprensibile perché fondato sul nulla: a cosa serve infatti un nome-de-plume in tempi come questi in cui tutti si ritrovano esposti sui social, anche o soprattutto se non lo vogliono, e se non hanno mai postato nulla direttamente?
E’ anzi una civetteria quasi inutile. I suoi romanzi piacciono perché hanno quella luce primordiale così violenta – come nelle controra mediterranea - da svelare l’animo umano nella sua complessità, quel miele alchemico che emoziona e lascia senza parola. Cioè: “a prescindere”, come direbbe Totò, la cui maschera immortale, con le sue rughe, non estranea alle trame e al plot narrativo dei suoi romanzi.
Se Elena Ferrante sia uomo o donna (Anita Gaja? Elisabetta Rasy?), se abiti a Spaccanapoli o al Vomero o alla Sanità, se sia ricca o povera, se abbia un altro lavoro, se abbia 25 o 75 anni, se abbia vissuto sempre lì all’ombra di Piazza Plebiscito, di Pino Daniele e Maradona, o si sia allontanata per poi tornare a respirare gli odori forti della sua infanzia, che cosa cambia? Nulla. Anche Molière, Stendhal, Moravia ebbero pseudonimi, così, tanto per giocare.
La fortunata tetralogia de “L’amica geniale”, (“Storia del nuovo cognome”, “Storia di chi fugge e di chi resta”, “Storia della bambina perduta”) dalla carta (edizioni e/o) è adesso proposta da Emons:audiolibri (Roma, www.emonsaudiolibri.it), con la preziosa e deliziosa lettura dell’attrice Anna Bonaiuto (David di Donatello e Nastro d’argento per “L’amore molesto” di Martone, altri film: “Il divo”, di Sorrentino, “Io, loro e Lara”, di Verdone, teatro di Eduardo con Toni Servillo): una voce che sa rendere tutte le luci e le ombre interne alle intricate, barocche storie narrate (in tutto oltre 60 ore di ascolto, due giorni e mezzo, ben spesi, però, come ben spesi sono i 74,60 euro complessivi), regia di Flavia Gentili, montaggio di Andrea Giuseppini, studio di registrazione 24 Gradi, Roma.
In una Napoli desolata e metafisica, Elena Ferrante mette in scena la vita, coglie il suo dna doloroso e ilare, non come la pensa, ma com’è, senza artifizi, rappresentazioni, malizie letterarie. In questo si rifà a Proust, ma anche a Balzac e a Hugo. Ma anche all’esiguità dell’uomo dinanzi al suo destino come in Dostoevskij.
Anche questo ha fatto di lei una caso letterario mondiale, e a anche per questo è più nota e amata all’estero – dove è un vero e proprio cult – che in patria, dove ci si ferma alla querelle sull’identità, senza leggerla per quello che è: una sorta di Omero, un pò Sheherazade, Shakespeare, un po’ Borges, un pò Hugo e un pò Basile (“Lo cunto de li cunti”).
Ha colto il dramma senza uscita di essere nati (riecheggiando Cioran), la disperazione inspiegabile e irrimediabile della condizione umana (“far male era una malattia”), ma anche la pietas giocosa di un mondo in precario equilibrio raggrumato da un’energia oscura, la luce violenta della controra, il senso del sublime che impregna la nostra avventura, e qualsiasi esistenza, la nostra per prima.
Chi è Lila in fondo se non una sorta di Dante che da quando butta in cantina la bambola della narratrice sino all’imprenditrice nell’informatico con un figlio che la cerca, ci mena nel nostro sottosuolo dove tutto è magia e sortilegio, passione e fatalismo, col senso della tragedia sfiorata dalla dolce carezza della poesia, sapendo che alla fine anche che noi sortiremo “a rivedere le stelle”?
E’ anche qui il “segreto” del successo mondiale di Elena Ferrante, al di là del mistero – incomprensibile - della sua identità. Incomprensibile perché fondato sul nulla: a cosa serve infatti un nome-de-plume in tempi come questi in cui tutti si ritrovano esposti sui social, anche o soprattutto se non lo vogliono, e se non hanno mai postato nulla direttamente?
E’ anzi una civetteria quasi inutile. I suoi romanzi piacciono perché hanno quella luce primordiale così violenta – come nelle controra mediterranea - da svelare l’animo umano nella sua complessità, quel miele alchemico che emoziona e lascia senza parola. Cioè: “a prescindere”, come direbbe Totò, la cui maschera immortale, con le sue rughe, non estranea alle trame e al plot narrativo dei suoi romanzi.
Se Elena Ferrante sia uomo o donna (Anita Gaja? Elisabetta Rasy?), se abiti a Spaccanapoli o al Vomero o alla Sanità, se sia ricca o povera, se abbia un altro lavoro, se abbia 25 o 75 anni, se abbia vissuto sempre lì all’ombra di Piazza Plebiscito, di Pino Daniele e Maradona, o si sia allontanata per poi tornare a respirare gli odori forti della sua infanzia, che cosa cambia? Nulla. Anche Molière, Stendhal, Moravia ebbero pseudonimi, così, tanto per giocare.
La fortunata tetralogia de “L’amica geniale”, (“Storia del nuovo cognome”, “Storia di chi fugge e di chi resta”, “Storia della bambina perduta”) dalla carta (edizioni e/o) è adesso proposta da Emons:audiolibri (Roma, www.emonsaudiolibri.it), con la preziosa e deliziosa lettura dell’attrice Anna Bonaiuto (David di Donatello e Nastro d’argento per “L’amore molesto” di Martone, altri film: “Il divo”, di Sorrentino, “Io, loro e Lara”, di Verdone, teatro di Eduardo con Toni Servillo): una voce che sa rendere tutte le luci e le ombre interne alle intricate, barocche storie narrate (in tutto oltre 60 ore di ascolto, due giorni e mezzo, ben spesi, però, come ben spesi sono i 74,60 euro complessivi), regia di Flavia Gentili, montaggio di Andrea Giuseppini, studio di registrazione 24 Gradi, Roma.
In una Napoli desolata e metafisica, Elena Ferrante mette in scena la vita, coglie il suo dna doloroso e ilare, non come la pensa, ma com’è, senza artifizi, rappresentazioni, malizie letterarie. In questo si rifà a Proust, ma anche a Balzac e a Hugo. Ma anche all’esiguità dell’uomo dinanzi al suo destino come in Dostoevskij.
Anche questo ha fatto di lei una caso letterario mondiale, e a anche per questo è più nota e amata all’estero – dove è un vero e proprio cult – che in patria, dove ci si ferma alla querelle sull’identità, senza leggerla per quello che è: una sorta di Omero, un pò Sheherazade, Shakespeare, un po’ Borges, un pò Hugo e un pò Basile (“Lo cunto de li cunti”).
Ha colto il dramma senza uscita di essere nati (riecheggiando Cioran), la disperazione inspiegabile e irrimediabile della condizione umana (“far male era una malattia”), ma anche la pietas giocosa di un mondo in precario equilibrio raggrumato da un’energia oscura, la luce violenta della controra, il senso del sublime che impregna la nostra avventura, e qualsiasi esistenza, la nostra per prima.
Chi è Lila in fondo se non una sorta di Dante che da quando butta in cantina la bambola della narratrice sino all’imprenditrice nell’informatico con un figlio che la cerca, ci mena nel nostro sottosuolo dove tutto è magia e sortilegio, passione e fatalismo, col senso della tragedia sfiorata dalla dolce carezza della poesia, sapendo che alla fine anche che noi sortiremo “a rivedere le stelle”?
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