di FRANCESCO GRECO - La storia del rock? Passa da Montesardo, il greco Tracheion Oros, il latino Mons Arduus, cento geni versati in ogni ramo dello scibile umano fra tardo Medioevo ed età moderna (quando fu detto Piccola Atene e Napoli Piccolo).
Spunta da una “cantina” fra via Nazionale e via Cappelluzza, luogo cult per chi ha studiato e fatto musica dagli anni Settanta ai giorni nostri.
Qui dormivano il sonno placido e polveroso del tempo vecchie audiocassette dai suoni polisemicamente ricchi e innovativi, contaminati all’ennesima potenza, fra i ritmi primordiali e sensuali del Mediterraneo e le declinazioni semanticamente affollate dell’Occidente.
Questi nastri innocenti, allineati in ordine in vecchi scaffali, custodivano dunque suoni collegabili al rock delle origini intrecciati all’energia escatologica dell’Africa e dell’Oriente. Testimonianze inconsce degli anni ’70 dell’altro secolo, quello delle rivoluzioni fatte e abortite, quando anche col rock l’immaginazione sfiorò il potere per costruire un nuovo mondo e un uomo nuovo. Il rock fu un linguaggio universale, fresco e immediato, a portata di tutti, di intere generazioni stanziate a ogni angolo di un pianeta improvvisamente piccolo, i cui echi della nuova musica si spalmavano dolcemente a ogni angolo, folgorando ogni mente, in tutti i cuori. Dall’isola di Wright ai prati di Woodstock, dai suk arabi alle favelas latinoamericane.
I Calignano sono un’antica famiglia di Montesardo. Il padre Giuseppe fu amministratore dei Baroni Daniele di Gagliano. Aveva la passione della musica sinfonica, che trasmise geneticamente ai figli. Ancora piccoli, Biagio, Francesco e Mario, ebbero modo di venire in contatto con ottimi maestri napoletani eredi della grande tradizione musicale partenopea, qui giunti al seguito dei Padri Vocazionisti che per la benevolenza delle Baronesse Anna ed Eleonora Romasi (la casata pare provenga dall’Albania), potettero stabilirsi nel loro Castello, donato all’Ordine dalle nobildonne per una causa umanitariamente nobile: un orfanatrofio.
Su un paesaggio all’apparenza bucolico, irruppe il rock di Frank Zappa e i Genesis, i Beatles e i Pink Floyd e altri gruppi ormai nella storia, nel mito. Fu la “folgorazione”, la sintonia sottintesa, una lunghezza d’onda comune: dal particulare all’universale e dall’universale al particolare, un’osmosi ricca di contaminazioni carsiche e di superficie.
Nella loro “cantina”, i fratelli Calignano cominciarono a suonare, e da allora non si sono più fermati. I loro arazzi tessuti sulle corde di una chitarra comprata in Svizzera dall’amico pittore Roberto Russo (siamo alle metà dei ‘70) e gli arabeschi sulle percussioni sono rinchiusi in quelle audiocassette che parlano anche di sperimentazioni, avanguardie, contaminazioni, febbrile, eccitata ricerca scagliata nel futuro.
Dapprima i Calignano si fecero conoscere e amare dalla Terra d’Otranto. Concerti nelle piazze affollate, locali colmi di energia, raduni e rassegne vissuti come avventure, sfide continue. Diventarono un gruppo-cult. Anni di rabbia immaginifica, di furore creativo, di protagonismo politico di massa. Un giorno però avvertirono l’esiguità dei loro orizzonti, l’urgenza di un confronto con altre terre, popoli, suoni, misteri. Dovevano darsi al mondo, esser dentro alle tante rivoluzioni in progress. Partirono d’istinto.
E quando le band italiane extra moenia erano guardate con sufficienza, talvolta ignorate, i Calignano si proponevano in seguitissimi concerti nel Nord Europa. Il confronto, la sfida arricchisce sempre: infatti le tournèe rafforzarono gli archetipi interni della loro musica, la percezione di se stessi e autostima.
In questi anni sono diventati dei “maestri”. Danno lezioni tutto l’anno, tanti gli allievi passati dalla “cantina”: anche il filosofo Mario Carparelli (autorevole studioso del Vanini), che hanno poi una carriera tutta loro (basti citare il percussionista e compositore Antonio Amoroso, molto amato in Germania).
La ricerca del gruppo è proseguita, si è arricchita di nuove scoperte e sonorità, il rock si è ulteriormente contaminato, sensibile com’è a tutte le coniugazioni.
La prof. Elsa Martinelli, musicologa e docente al Conservatorio “Tito Schipa” di Lecce, sta curando un libro che ricostruisce la parabola vincente e polisemicamente ricca dei Calignano. Titolo: “I Corpo, leggenda sotterranea del rock italiano” (Come i tedeschi, meglio degli americani).
A distanza di quattro anni dal cd “Due Sicilie” (da leggere anche come “tribute” al Sud e alla sua antica e nobile storia), che è molto piaciuto alla critica e al pubblico, con l’etichetta veneta “Lizard” (di Loris Furlan), nel 2016 hanno pubblicato “Corpo I & II” (“Corpo” è uno dei tanti nomi che la band ha cambiato nella sua lunga carriera).
Che contiene una rigorosa selezione del materiale ritrovato in quelle mitiche cassette, dei loro concerti in quegli anni in cui si coltivò l’utopia. Nei nove brani proposti, si ritrova tutta la ricchezza di postulati, estetici e politici, la possente energia di quel tempo, quel mondo, quell’uomo. Dal punto di vista strumentale, il lavoro è impreziosito dagli “assoli” di batteria, basso e chitarra. I brani sono stati scritti, arrangiati, prodotti e registrati a Montesardo nel 1979, col basso del fratello Mario (che poi ha lasciato l’attività).
Nei cinque brani del I, pianoforte elettrico e batteria di Biagio Calignano, chitarra e basso di Francesco, che è anche un grande pittore: sua la bellissima cover del cd che è uscito (ed è stato recensito) in tutto il mondo: USA, Russia, Olanda, Sudafrica, Gran Bretagna, Germania, Belgio, ecc.
“Una manciata di demo, precari nastri dal vivo”, osserva Enrico Ramunni. Il grande critico milanese, purtroppo mancato prematuramente, scende nel particolare e parla di “progressive”, di “umori prog-folk”, di “dissonanze kraut e tentazioni wave”. Ma sono solo alcune interfacce della loro multiforme ricerca di suoni pregni di dialettica e di una loro “storia” che lasci una traccia profonda nel cuore degli uomini e del tempo. Una ricerca che si è nutrita di innumerevoli influssi, irradiata dalle declinazioni rock del pianeta in quasi mezzo secolo, per poi trasfigurarsi – ed è anche qui la password rivoluzionaria della loro musica - in qualcosa di nuovo, originale, unico, quindi immortale, come lo è la poesia.
Una musica che lascerà un solco profondo nella storia e che emozionerà anche i posteri nel tempo che verrà. Agli inizi del prossimo anno, intanto, uscirà il terzo lavoro, di inediti (sempre con la “Lizard” di Furlan).
Credit: il restauro dei nastri e il mastering è opera paziente di Matteo Rosafio (per ribadire che anche a Sud si fanno operazioni di questo tipo e che abbiamo eccellenze sul territorio). Progetto grafico di Giuseppe Calignano (musicista in proprio, suo il booktrailer di un romanzo Rizzoli, insegna in Norvegia, a Oslo), grafica di Michele Scarcella.
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