di FRANCESCO GRECO - TIGGIANO (LE). L’oblio incombe su di noi, sulla civiltà occidentale, come una minaccia epocale. E’ un perfido peplo che la avvolge, una gramigna tenace che la soffoca. L’oralità è stata annientata dalla tv “cattiva maestra”, nelle case non parla più nessuno, solo i profeti del nulla e usano la koinè del dominio, dell’esproprio culturale, la lingua atrofizzata, le identità livellate, la memoria formattata, le radici recise, le diversità omologate rispetto a modelli estranei, lontani, se non ostili a tutti noi.
Le generazioni non si trasmettono più il sapere com’è stato per millenni, ma silenzi colmi di nichilismo e paranoia. La percezione della conoscenza è disarticolata, la lingua svuotata e destrutturata. Una crasi del sapere, un buco nero che provoca alienazione, porta al disorientamento, alla crisi d’identità. E quando un popolo non sa più chi è, non può nemmeno ipotizzare un futuro, e si espone così a ogni opzione, dis-avventura culturale e politica.
Ma se la memoria è dolore, è anche luce, un fuoco greco che illumina un presente ispido di infinite contraddizioni, in cui stiamo relativizzando la bellezza avuta dal passato. Processo che si può tentare di contrastare e gestire tentando di ricucire lo strappo nella tela del tempo, riannodare i fili spezzati.
E’ il mainstream di “CantiCunti” (Una ricerca antropologica a Tiggiano nel Salento), di Ornella Ricchiuto, Liquilab Editore, Tricase 2017, pp. 203, euro 15, collana “La zattera di Pietra”, diretta da Eugenio Imbriani (docente di Antropologia Culturale all’Università del Salento, che firma una sapida premessa), impaginazione di Marcello Fersini, stampa Grafiche Giorgiani (Castiglione di Andrano), emozionante reportage fotografico della Fera de Santu Pati di Pina Scarcella.
L’antropologia è la password più credibile, perché lontana da facili accademie, edulcorazioni, conclusioni affrettate, sociologie che fanno trend. La ricerca della studiosa (dottoressa in Sociologia e Ricerca Sociale) mette a nudo la ricca semantica dell’affabulazione popolare, il logos di un popolo che, da Omero a Dante, più contaminato non si potrebbe, avendo nel suo dna cromosomi europei (Romani, Goti, Longobardi, Svevi, Normanni, Aragonesi) e mediterranei (Messapi, Fenici, Greci, Bizantini, Arabi).
Il fatto che la Ricchiuto abbia deciso di lasciare il dialetto della gente intervistata così com’è, dà allo studio una forza dirompente, come sempre accade quando si fa fluire l’oralità popolare. Poiché il dialetto è più ricco della lingua italiana, ha fonemi e senso spesso intraducibili, e se come diceva Nanni Moretti “le parole sono importanti”, lo è anche l’immaginario del mondo di ieri, patrimonio prezioso di ogni popolo, recuperato e donato alle generazioni di domani per fortificare la loro coscienza, rafforzare l’identità. Dai “cunti” traspare un mondo di fatica e miseria (“tannu e scarpe tuccava te minti quannu scivi a missa”), di sfruttamento e di emigrazione, ma anche di dolcezza e bellezza, di pudore (“Ieu m’era piaciutu cu sacciu ballare”), a tratti di magia, superstizioni (“prima tutte macare erane”), leggende, religiosità, un paradiso terrestre che abbiamo incrinato, ma non perduto (almeno, finché se ne ha coscienza), per darci anima e corpo agli amici di Maria e al feticismo più volgare del Grande Fratello.
Il pregio della pubblicazione è nel dare – partendo dalla fiera del protettore Sant’Ippazio, “Capodanno contadino”, snodo temporale che porta alla nuova stagione - la parola a chi scrive la Storia con la sua quotidianità sofferta ma anche nobile: i suoi riti e miti millenari, l’etos e l’epos che hanno la funzione di coagulare un popolo attorno a valori forti, la socialità in casa e fuori, le lotte quotidiane per il pane amaro e soprattutto la dignità.
Un lavoro che odora di “marenna” (o “paparotta”), che richiama gli “infiniti mondi” del nostro passato remoto e prossimo, impreziosito da un cd allegato in cui le voci dei narratori di Piazza Cuti (“cuore di Tiggiano”, nome che richiama un mondo arcaico, ancestrale: in dialetto significa pietre) sono accompagnate da un pool di musicisti di eccezionale bravura diretti dal maestro Luigi Panico (mandola), con Salvatore Alessio (organetto), Biagio De Francesco (fisarmonica e chitarra), Antonio Donadeo (batteria), Pietro De Francesco (basso), Rocco Gennaro (chitarra), Adriano Piscopello (violino), Silvia Serafino (voce).
Il libro sarà presentato stasera (“scàpala” di Santu Pati), alle 7 e mezza, alla sala-convegni del Comune.
Le generazioni non si trasmettono più il sapere com’è stato per millenni, ma silenzi colmi di nichilismo e paranoia. La percezione della conoscenza è disarticolata, la lingua svuotata e destrutturata. Una crasi del sapere, un buco nero che provoca alienazione, porta al disorientamento, alla crisi d’identità. E quando un popolo non sa più chi è, non può nemmeno ipotizzare un futuro, e si espone così a ogni opzione, dis-avventura culturale e politica.
Ma se la memoria è dolore, è anche luce, un fuoco greco che illumina un presente ispido di infinite contraddizioni, in cui stiamo relativizzando la bellezza avuta dal passato. Processo che si può tentare di contrastare e gestire tentando di ricucire lo strappo nella tela del tempo, riannodare i fili spezzati.
E’ il mainstream di “CantiCunti” (Una ricerca antropologica a Tiggiano nel Salento), di Ornella Ricchiuto, Liquilab Editore, Tricase 2017, pp. 203, euro 15, collana “La zattera di Pietra”, diretta da Eugenio Imbriani (docente di Antropologia Culturale all’Università del Salento, che firma una sapida premessa), impaginazione di Marcello Fersini, stampa Grafiche Giorgiani (Castiglione di Andrano), emozionante reportage fotografico della Fera de Santu Pati di Pina Scarcella.
L’antropologia è la password più credibile, perché lontana da facili accademie, edulcorazioni, conclusioni affrettate, sociologie che fanno trend. La ricerca della studiosa (dottoressa in Sociologia e Ricerca Sociale) mette a nudo la ricca semantica dell’affabulazione popolare, il logos di un popolo che, da Omero a Dante, più contaminato non si potrebbe, avendo nel suo dna cromosomi europei (Romani, Goti, Longobardi, Svevi, Normanni, Aragonesi) e mediterranei (Messapi, Fenici, Greci, Bizantini, Arabi).
Il fatto che la Ricchiuto abbia deciso di lasciare il dialetto della gente intervistata così com’è, dà allo studio una forza dirompente, come sempre accade quando si fa fluire l’oralità popolare. Poiché il dialetto è più ricco della lingua italiana, ha fonemi e senso spesso intraducibili, e se come diceva Nanni Moretti “le parole sono importanti”, lo è anche l’immaginario del mondo di ieri, patrimonio prezioso di ogni popolo, recuperato e donato alle generazioni di domani per fortificare la loro coscienza, rafforzare l’identità. Dai “cunti” traspare un mondo di fatica e miseria (“tannu e scarpe tuccava te minti quannu scivi a missa”), di sfruttamento e di emigrazione, ma anche di dolcezza e bellezza, di pudore (“Ieu m’era piaciutu cu sacciu ballare”), a tratti di magia, superstizioni (“prima tutte macare erane”), leggende, religiosità, un paradiso terrestre che abbiamo incrinato, ma non perduto (almeno, finché se ne ha coscienza), per darci anima e corpo agli amici di Maria e al feticismo più volgare del Grande Fratello.
Il pregio della pubblicazione è nel dare – partendo dalla fiera del protettore Sant’Ippazio, “Capodanno contadino”, snodo temporale che porta alla nuova stagione - la parola a chi scrive la Storia con la sua quotidianità sofferta ma anche nobile: i suoi riti e miti millenari, l’etos e l’epos che hanno la funzione di coagulare un popolo attorno a valori forti, la socialità in casa e fuori, le lotte quotidiane per il pane amaro e soprattutto la dignità.
Un lavoro che odora di “marenna” (o “paparotta”), che richiama gli “infiniti mondi” del nostro passato remoto e prossimo, impreziosito da un cd allegato in cui le voci dei narratori di Piazza Cuti (“cuore di Tiggiano”, nome che richiama un mondo arcaico, ancestrale: in dialetto significa pietre) sono accompagnate da un pool di musicisti di eccezionale bravura diretti dal maestro Luigi Panico (mandola), con Salvatore Alessio (organetto), Biagio De Francesco (fisarmonica e chitarra), Antonio Donadeo (batteria), Pietro De Francesco (basso), Rocco Gennaro (chitarra), Adriano Piscopello (violino), Silvia Serafino (voce).
Il libro sarà presentato stasera (“scàpala” di Santu Pati), alle 7 e mezza, alla sala-convegni del Comune.
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