di FREDERIC PASCALI - È possibile trovare per ogni cosa, ogni azione, un ordine specifico che ne stabilisca un confine in grado di definirne una indiscutibile linea di demarcazione? Probabilmente no. L’ultima fatica del regista Ferzan Ozpetek ne è la raffigurazione più appropriata con una storia che avanza costantemente in bilico tra generi e citazioni, succube di un equilibrio precario quale quello che la vita e la morte predispongono per ogni individuo.
Adriana è un medico anatomopatologo con alle spalle un’infanzia segnata dalla tragica perdita dei genitori. Frequenta la dimora della zia e il ricco e variopinto mondo borghese e artistico napoletano di cui ama circondarsi. In una serata mondana conosce un giovane uomo che, senza mezzi termini, la invita a passare la notte con lui. È una passione inaspettata e travolgente che si risolverà in un mistero in apparenza indecifrabile.
“Napoli velata” si veste spesso da melodramma ma rincorre il noir costeggiando l’hard-boiled per poi sfociare nella neutrale opacità del surreale nella quale riscontrare dei fatti e dei confini diventa un’impresa ardua. Il pastiche di cui si compone la pellicola di Ozpetek non giova e nega un’uniformità di genere che probabilmente avrebbe contribuito meglio a dosare tempi e personaggi. Le numerose citazioni, Hitchcock e Dario Argento in primis, che i movimenti della macchina da presa evocano fin dalla scena iniziale, con protagonista la scala liberty di Palazzo Mannajuolo, subiscono un continuo processo di “indigenizzazione” che smorza i toni del dramma e ammicca a una svolta napoletana ricca di tradizioni e misteri. Tuttavia, per una sceneggiatura di questo tipo, dello stesso Ozpetek, di Gianni Romoli e di Valia Santella, sempre ondivaga e attenta a oscurare i contorni, sarebbe occorsa una prova recitativa corale senza sbavature e in perfetta concordanza. Questo non avviene, a cominciare dai due protagonisti principali, Giovanna Mezzogiorno, “Adriana”/”Isabella”, e Alessandro Borghi, “Andrea”/”Luca”, che appaiono non perfettamente a loro agio, soprattutto nelle scene di passione, in un ruolo che faticano a gestire. Per contro risulta forte la presenza scenica di Anna Bonaiuto, “Adele”, e Beppe Barra, “Pasquale”, mentre la bella fotografia di Gianfilippo Corticelli, accostata alla colonna sonora di Pasquale Catalano, dona alle immagini quella magia che la trama, troppo spesso, si perde inopinatamente per strada.
Adriana è un medico anatomopatologo con alle spalle un’infanzia segnata dalla tragica perdita dei genitori. Frequenta la dimora della zia e il ricco e variopinto mondo borghese e artistico napoletano di cui ama circondarsi. In una serata mondana conosce un giovane uomo che, senza mezzi termini, la invita a passare la notte con lui. È una passione inaspettata e travolgente che si risolverà in un mistero in apparenza indecifrabile.
“Napoli velata” si veste spesso da melodramma ma rincorre il noir costeggiando l’hard-boiled per poi sfociare nella neutrale opacità del surreale nella quale riscontrare dei fatti e dei confini diventa un’impresa ardua. Il pastiche di cui si compone la pellicola di Ozpetek non giova e nega un’uniformità di genere che probabilmente avrebbe contribuito meglio a dosare tempi e personaggi. Le numerose citazioni, Hitchcock e Dario Argento in primis, che i movimenti della macchina da presa evocano fin dalla scena iniziale, con protagonista la scala liberty di Palazzo Mannajuolo, subiscono un continuo processo di “indigenizzazione” che smorza i toni del dramma e ammicca a una svolta napoletana ricca di tradizioni e misteri. Tuttavia, per una sceneggiatura di questo tipo, dello stesso Ozpetek, di Gianni Romoli e di Valia Santella, sempre ondivaga e attenta a oscurare i contorni, sarebbe occorsa una prova recitativa corale senza sbavature e in perfetta concordanza. Questo non avviene, a cominciare dai due protagonisti principali, Giovanna Mezzogiorno, “Adriana”/”Isabella”, e Alessandro Borghi, “Andrea”/”Luca”, che appaiono non perfettamente a loro agio, soprattutto nelle scene di passione, in un ruolo che faticano a gestire. Per contro risulta forte la presenza scenica di Anna Bonaiuto, “Adele”, e Beppe Barra, “Pasquale”, mentre la bella fotografia di Gianfilippo Corticelli, accostata alla colonna sonora di Pasquale Catalano, dona alle immagini quella magia che la trama, troppo spesso, si perde inopinatamente per strada.
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LA RECENSIONE