'Le persone si incontrano, i problemi si affrontano'. Don Ciotti racconta un aneddoto della sua infanzia

di LUIGI LAGUARAGNELLA - Don Luigi Ciotti, ospite dei Salesiani di Bari lo scorso venerdì 9 febbraio, ha raccontato una sua diretta esperienza dell’infanzia legata alla dignità di ogni persona, alla misura del rimprovero, al valore delle relazioni, al responsabilità dei propri errori, alla violenza “che chiama altra violenza”. L’abbiamo ascoltata e abbiamo provato a trascriverla.

Questa è una storia di povertà e dignità. Si può essere poveri e dignitosi. Dovevo iniziare il mio giorno di scuola in prima elementare. Ci trasferimmo a Torino perché mio padre aveva trovato lavoro; il lavoro è l’elemento fondamentale per rendere libero un uomo. Lavorava come operaio per la costruzione dell’attuale Politecnico. Aveva il lavoro, ma non la casa. Riuscì, però a trovare una baracca e così ci trasferimmo con tutta la famiglia con mia madre e le mie due sorelle.

A quel tempo a scuola si doveva indossare il grembiule e un grande fiocco, era obbligatorio. Ma la mia famiglia non poteva permetterselo. Quello che avevamo era per le mie sorelle. Mia madre allora andò a parlare agli uffici della scuola dicendo che avrebbero provveduto il più presto possibile e che per il primo giorno di scuola non avrei avuto il grembiule con il fiocco.

Mi presentai in classe con un abito usato, ma mia madre aveva le capacità di rendermelo nuovo. Ero l’unico senza grembiule. Mi sentivo diverso e mi sentivo già etichettato perché la maestra mi mise davanti un po’ isolato dai compagni di classe.

Tra i banchi si creò un po’ confusione, chiasso. Io ero fermò al mio posto, ma la maestra rimproverò me pur non avendo fatto niente. Le risposi senza neanche parlare, ma facendo un gesto come per dire “non ho fatto niente”.

Non so perché, ma la mastra, probabilmente perché ero facilmente etichettabile mi rispose dicendo: “Cosa vuoi tu montanaro?!”. Lo disse in maniera offensiva, anche perché per quanto mi riguarda sono felice delle mie origini (Pieve di Cadore). Ma il tono che usò la maestra contribuì a farmi sentire diverso.

Sul banco, a quel tempo, si usava il calamaio. Fui preso dalla rabbia e feci una cosa che, badate bene, non dovevo fare. Presi il calamaio e lo buttai addosso alla mia maestra. Inevitabilmente quando i genitori dei miei compagni seppero dell’accaduto esortarono i loro figli a stare alla larga da me. E io ero ancora più isolato. Anzi dovetti cambiare scuola.

La combinai grossa e già sapevo di aver sbagliato. Una persona capisce quando sbaglia. E già sapevo che quando sarei tornato a casa avrei ricevuto una severa punizione da mia madre che ancora ricordo.

Avevo sbagliato pur avendo la consapevolezza di non aver fatto niente. Mentre prendevo in mano il calamaio già sapevo che stavo sbagliando. Non capivo il motivo di quella emarginazione e di quella frase della mia maestra, della difficoltà di comunicazione, di questa relazione mancata. Ma a mia madre interessava che avevo compiuto un gesto inqualificabile.

Solo alcuni anni dopo, mia madre tornò su questo mio episodio e mi disse di aver capito le cause del mio gesto. Ossia aver difeso la dignità della mia famiglia. Poi aggiunse: “Ma alla violenza non si risponde mai con altra violenza”.

L’unità di misura dell’uomo è la relazione. Per questo le persone si incontrano, i problemi si affrontano non il contrario.