LECCE - E’ orgogliosamente di Maglie il professore Francesco Maria Bandello che nelle scorse settimane, assieme alla sua equipe, ha impiantato per la prima volta in Italia una protesi sotto la retina di una donna di 50 anni, cieca da 20 anni.
Salute Salento ha contattato l’illustre conterraneo, che a Milano dirige l’unità di Oculistica e la scuola di specializzazione di Oftalmologia dell’Istituto scientifico San Raffaele e dove è specialista in Chirurgia vitreoretinica e oftalmoplastica.
«L’intervento è tecnicamente molto difficile in quanto si tratta di inserire il microchip sotto alla retina, nella sua parte centrale (la macula)», ha spiegato il professore.
E ha aggiunto, «Creare lo spazio attraverso cui far scivolare il microchip, sotto la retina, senza distruggere i tessuti che si attraversano è un’impresa ardua. In aggiunta a questo - continua - si deve inserire, nella regione temporale, creando un letto all’interno dell’osso, un amplificatore delle dimensioni di un paio di monete da un euro. L’amplificatore è indispensabile per inviare al cervello un “messaggio visivo” di forza adeguata».
Le due differenti fasi dell’intervento – ha sottolineato il professore Bandello - prevedono l’impiego di due differenti equipe e un impegno chirurgico totale di 11 ore.
Il professore Bandello inoltre, confessa che non è stato facile individuare il “candidato” ideale all’impianto sottoretinico.
«Paradossalmente – spiega Bandello - ancora più difficile è stato selezionare la paziente giusta. Si deve infatti garantire che si tratti di una persona affetta da retinite pigmentosa, che non vede nulla in entrambi gli occhi, ma che ha visto in passato. Ciò allo scopo di garantire che ci sia la possibilità di far riprendere a funzionare quelle connessioni nervose che, un tempo, in passato, avevano funzionato».
Fin qui le caratteristiche fisiche. Evidentemente, però, non è bastato. Visto che è stato necessario tenere conto anche del profilo psicologico.
«Il paziente – aggiunge il professore magliese - deve inoltre avere una personalità che gli consenta di affrontare in modo adeguato quel cambiamento drammatico, che è riprendere a vedere dopo che ci si è abituati al buio. Sembra ovvio – sottolinea il professore - immaginare che tutti sarebbero felici di rivedere, ma così non è. Uno psicologo ci ha aiutati ad individuare la persona più adatta».
«Tra pochi giorni – ha spiegato a Salute Salento il professore - si procederà con l’accensione del microchip e ci auguriamo che lo sforzo fatto da tante persone porti al risultato sperato: ridare una funzione visiva a questa paziente e, idealmente, aiutarla a vedere il volto di quei figli che, finora, non ha mai potuto vedere».
Attualmente questo nuovo modello di protesi è stato impiantato solo in due centri europei.
Salute Salento ha contattato l’illustre conterraneo, che a Milano dirige l’unità di Oculistica e la scuola di specializzazione di Oftalmologia dell’Istituto scientifico San Raffaele e dove è specialista in Chirurgia vitreoretinica e oftalmoplastica.
«L’intervento è tecnicamente molto difficile in quanto si tratta di inserire il microchip sotto alla retina, nella sua parte centrale (la macula)», ha spiegato il professore.
E ha aggiunto, «Creare lo spazio attraverso cui far scivolare il microchip, sotto la retina, senza distruggere i tessuti che si attraversano è un’impresa ardua. In aggiunta a questo - continua - si deve inserire, nella regione temporale, creando un letto all’interno dell’osso, un amplificatore delle dimensioni di un paio di monete da un euro. L’amplificatore è indispensabile per inviare al cervello un “messaggio visivo” di forza adeguata».
Le due differenti fasi dell’intervento – ha sottolineato il professore Bandello - prevedono l’impiego di due differenti equipe e un impegno chirurgico totale di 11 ore.
Il professore Bandello inoltre, confessa che non è stato facile individuare il “candidato” ideale all’impianto sottoretinico.
«Paradossalmente – spiega Bandello - ancora più difficile è stato selezionare la paziente giusta. Si deve infatti garantire che si tratti di una persona affetta da retinite pigmentosa, che non vede nulla in entrambi gli occhi, ma che ha visto in passato. Ciò allo scopo di garantire che ci sia la possibilità di far riprendere a funzionare quelle connessioni nervose che, un tempo, in passato, avevano funzionato».
Fin qui le caratteristiche fisiche. Evidentemente, però, non è bastato. Visto che è stato necessario tenere conto anche del profilo psicologico.
«Il paziente – aggiunge il professore magliese - deve inoltre avere una personalità che gli consenta di affrontare in modo adeguato quel cambiamento drammatico, che è riprendere a vedere dopo che ci si è abituati al buio. Sembra ovvio – sottolinea il professore - immaginare che tutti sarebbero felici di rivedere, ma così non è. Uno psicologo ci ha aiutati ad individuare la persona più adatta».
«Tra pochi giorni – ha spiegato a Salute Salento il professore - si procederà con l’accensione del microchip e ci auguriamo che lo sforzo fatto da tante persone porti al risultato sperato: ridare una funzione visiva a questa paziente e, idealmente, aiutarla a vedere il volto di quei figli che, finora, non ha mai potuto vedere».
Attualmente questo nuovo modello di protesi è stato impiantato solo in due centri europei.