di FRANCESCO GRECO - Il Novecento “secolo breve” con l’asprezza dei suoi “ismi”, le utopie egualitarie trasfigurate in ideologie oppressive, sanguinarie, continua a devastare l’anima e la vita di milioni di uomini, costretti a chiedersi “perché Dio mi sta mettendo alla prova”.
Al tempo della “Grande Carestia”, nel paese del “Caro Leader”, del “Grande Generale”, un gruppo di millenials sono derubati dell’identità prima di tutto, e poi della dignità, e vagano alla deriva, impossibilitati a darsi un progetto di vita, un futuro, benché esiguo.
Non sanno chi sono i nord coreani (lì si fanno 10 anni di militare, si muore ufficialmente di tubercolosi e bisogna adeguarsi per riempirsi la pancia e ovunque ci sono “trappole, bocche, occhi”) assemblati in una fauna antropologica varia (il ragazzo-bene figlio della nomenklatura caduta in disgrazia – un addetto al commercio e un’attrice - con tendenze gay, accanto al borderline che deve sfamarsi e alla ragazza povera e sensibile che aspetta una bambina), in un girone dantesco folle, un limbo senza futuro, un lager peripatetico dove ci si ritrova spinti in una dimensione subumana, tutto è azzerato, vige la negazione di ogni principio, valore, civiltà, al confine con un nichilismo esistenziale, un vuoto lacerante, mentre galleggiano in una missione cattolica in Cina aspettando di raggiungere il paradiso terrestre immaginato in Corea del Sud, dove la loro esigua identità, così messa a dura prova, sarà definitivamente annientata (“gli uomini sono animali”).
“Come siamo diventati coreani”, di Krys Lee, Codice Edizioni, Torino 2017, pp. 304, euro 18,00, ebook 9,99, con una nota introduttiva di Shin Dong-huik (progetto grafico e cover di Alessandro Damin, ottima traduzione di Stefania De Franco, Flavio Iannelli e Daria Restani), è un romanzo aspro, avvincente, che si legge d’un fiato.
Un po’ Solgenicyn e un po’ Salamov, nello svelare cosa c’è dietro le parate militari e i piani quinquennali. Sobrio, privo di orpelli, l’essenzialità dello stile lo arricchisce di una forza dirompente, magnetica, l’urlo disperato di popoli senza diritti, cui è negata anche la percezione di se stessi (“avevamo tutti paura”), costretti alla menzogna come forma mentis (“ero diventato un’altra persona”).
Una bella secchiata di vetriolo per un regime che mostra i muscoli buttando missili e il capo è capace, davanti a tutti, di ammazzare un uomo per prendersi la moglie.
Al tempo della “Grande Carestia”, nel paese del “Caro Leader”, del “Grande Generale”, un gruppo di millenials sono derubati dell’identità prima di tutto, e poi della dignità, e vagano alla deriva, impossibilitati a darsi un progetto di vita, un futuro, benché esiguo.
Non sanno chi sono i nord coreani (lì si fanno 10 anni di militare, si muore ufficialmente di tubercolosi e bisogna adeguarsi per riempirsi la pancia e ovunque ci sono “trappole, bocche, occhi”) assemblati in una fauna antropologica varia (il ragazzo-bene figlio della nomenklatura caduta in disgrazia – un addetto al commercio e un’attrice - con tendenze gay, accanto al borderline che deve sfamarsi e alla ragazza povera e sensibile che aspetta una bambina), in un girone dantesco folle, un limbo senza futuro, un lager peripatetico dove ci si ritrova spinti in una dimensione subumana, tutto è azzerato, vige la negazione di ogni principio, valore, civiltà, al confine con un nichilismo esistenziale, un vuoto lacerante, mentre galleggiano in una missione cattolica in Cina aspettando di raggiungere il paradiso terrestre immaginato in Corea del Sud, dove la loro esigua identità, così messa a dura prova, sarà definitivamente annientata (“gli uomini sono animali”).
“Come siamo diventati coreani”, di Krys Lee, Codice Edizioni, Torino 2017, pp. 304, euro 18,00, ebook 9,99, con una nota introduttiva di Shin Dong-huik (progetto grafico e cover di Alessandro Damin, ottima traduzione di Stefania De Franco, Flavio Iannelli e Daria Restani), è un romanzo aspro, avvincente, che si legge d’un fiato.
Un po’ Solgenicyn e un po’ Salamov, nello svelare cosa c’è dietro le parate militari e i piani quinquennali. Sobrio, privo di orpelli, l’essenzialità dello stile lo arricchisce di una forza dirompente, magnetica, l’urlo disperato di popoli senza diritti, cui è negata anche la percezione di se stessi (“avevamo tutti paura”), costretti alla menzogna come forma mentis (“ero diventato un’altra persona”).
Una bella secchiata di vetriolo per un regime che mostra i muscoli buttando missili e il capo è capace, davanti a tutti, di ammazzare un uomo per prendersi la moglie.