“Leogrande? Appartiene alla quarta generazione di meridionalisti”. Parla lo storico Salvatore Romeo


di FRANCESCO GRECO - TARANTO. Chissà cosa scriverebbe Alessandro Leogrande oggi che siamo avvolti nel surreale dibattito sulla chiusura dell’ILVA, una visione industriale un sacco postmoderna, escatologica, retrò.

Oggi che la globalizzazione formatta diritti, precarizza le nostre vite, mentre il lavoro si fa poco e spesso assassino.

Ma anche dell’eventuale governo giallo-verde in stand-by, che ha nel “contratto” anche il rimpatrio di un bel po’ di migranti, identificati come il Male assoluto, come se fossero pacchi postali, direbbe Dalla, in spregio a ogni trattato dell’Ue, e a ogni idea di umanità e comunità.

Lo chiediamo allo storico tarantino Salvatore Romeo, che ha curato una raccolta di scritti su Taranto di Leogrande (mancato all’improvviso 6 mesi fa), presentata anche a Lucugnano (Palazzo Comi), al Festival letterario “Armonia” (Narrazioni in Terra d’Otranto, IV edizione), con Mario Desiati e Nadia Terranova (foto), titolo: “Dalle macerie” (Feltrinelli, 2018).

DOMANDA: Proviamo a decifrare il Leogrande-pensiero: cosa scriverebbe dell’ILVA di cui non si sa che cosa fare?  
RISPOSTA: "Io posso dire quello che Leogrande ha scritto dell’ILVA. La sua riflessione abbraccia il ventennio in cui si sviluppa e si esaurisce la parabola dei Riva, con lo strascico del commissariamento.
Di questa vicenda Leogrande è stato un acuto osservatore, sin da quando era giovanissimo. Ha indagato le trasformazioni prodotte dalla privatizzazione: la restaurazione del controllo padronale sull’organizzazione del lavoro, la stretta autoritaria sulle relazioni industriali, l’azzeramento della forza del movimento operaio a seguito del drastico turn-over della manodopera, le conseguenze di tutto questo sull’ambiente e sulla società locale.
Per esempio, l’affermazione di un modello populista ante litteram – il fenomeno Giancarlo Cito – viene letto alla luce di questi sconvolgimenti, che alterano profondamente il tessuto civile e politico della città.
Una lettura che oggi possiamo estendere ben al di là dei confini di Taranto.
Dopo i sequestri del 2012, Leogrande si è battuto per un rinnovamento dell’industria, sulla base di due condizioni: un nuovo intervento pubblico, in grado di risolvere una volta per tutte l’emergenza ambientale, e una trasformazione in senso democratico dei rapporti di potere dentro la fabbrica.
Per lui queste opzioni marciavano di pari passo: la “riforma” della fabbrica non poteva avvenire senza il protagonismo dei lavoratori. Si può dire che questa proposta è stata sconfitta: oggi si parla della svendita di ILVA a una multinazionale, senza riguardo per i diritti dei lavoratori e con molte incognite sul piano della salvaguardia dell’ambiente.
Di questo Leogrande era consapevole, e i suoi ultimi scritti sono pervasi di un lucido pessimismo".

D. E dei migranti che hanno negli occhi un’ombra di terrore, perché c’è un governo in progress che vorrebbe aprire una caccia alle streghe, come se fossero degli untori cosa direbbe? 
R. "Voglio ricordare che una delle ultime iniziative promosse da Leogrande è stata la lettera aperta (https://ilmanifesto.it/lettera-aperta-alle-ong-disertate-il-bando-per-migliorare-i-campi-in-libia/) – firmata anche da Igiaba Scego, Andrea Segre e Dagmawi Yimer – per chiedere alle Ong di disertare il bando del governo per “migliorare” i campi profughi in Libia.
Invito a rileggere quel documento, che esprime molto chiaramente la visione di Leogrande sui fenomeni migratori.
Al centro di tutto vi è la denuncia delle politiche adottate di recente dall’Italia e dall’Unione Europea: l’altra faccia dei respingimenti è l’alleanza stretta dai nostri governi con chi comanda oggi in Libia, cioè bande armate a cui di fatto è appaltata la “difesa” dei nostri confini.
Quella lettera scatenò reazioni molto dure da parte delle forze politiche che allora sostenevano il governo. Ma a Leogrande il coraggio non mancava, e oggi sarebbe ancora in prima linea per rivendicare la dignità degli esseri umani contro i crescenti rigurgiti razzisti". 

D. Leogrande viveva a Roma, ma non aveva mai rotto il suo cordone ombelicale con Taranto, di cui nei suoi scritti quasi si annusa la salsedine e le grida nei vicoli di Tarde Vecchia: istinto?
R. "Forse c’era anche quello, ma il suo rapporto con Taranto non era soltanto sentimentale. La sua fisionomia intellettuale era quella di un illuminista che si approccia alla realtà con una prospettiva al contempo critica e progettuale. Per Leogrande Taranto era un frammento significativo di mondo da indagare e da provare a trasformare.
Quando scrive della città vecchia non concede nulla all’estetica della nostalgia, ma si batte con passione per un’operazione di restauro che conservi la memoria storica dei luoghi e allo stesso tempo li renda nuovamente vivi, anzitutto per la popolazione che li abita.
Taranto deve moltissimo a questo suo figlio illustre – anche se sembra non esserne consapevole –, e lui avrebbe potuto dare ancora tanto alla sua città".

D. Nella sua formazione intellettuale e politica il padre Stefano ebbe un ruolo importante, decisivo? 
R. "Indubbiamente. Stefano Leogrande è stato una personalità fondamentale per la comunità tarantina negli ultimi trent’anni.
Direttore della Caritas, vicepreside della scuola Ungaretti – scuola “di frontiera”, ubicata in uno dei quartieri più “difficili” della città –, la sua attività sociale è stata amplissima. E ha coinvolto direttamente anche Alessandro. Credo che dal padre egli abbia ricavato l’attenzione per le persone costrette ai margini della società, il nesso inscindibile fra “teoria” e “prassi”, una visione universale dei diritti, in grado di riconoscere la stessa umanità in chi vive dall’altra parte della frontiera.
Dire che senza Stefano non ci sarebbe stato Alessandro non è semplicemente constatare un ovvio fatto biologico: significa riconoscere una linea di continuità ideale, senza la quale sarebbe impossibile comprendere le scelte del Leogrande intellettuale".

D. Lei ha ammonito contro le monoculture: era anche il pensiero di Leogrande?
R. "Direi che è il principale elemento di riflessione che Leogrande ha lasciato ai suoi concittadini. L’ultima parte di “Dalle macerie” è dedicata al tema dell’identità, e lì risalta con chiarezza questo aspetto.
Nei suoi scritti riconosce l’identità complessa di Taranto, e invita a evitare riduzionismi che ancora una volta appiattiscano il futuro del capoluogo ionico su una sola possibilità.
Per intenderci, Leogrande respingeva l’idea per cui la monocultura industriale debba lasciar posto a una sorta di monocultura turistica. Questa visione sta intossicando il dibattito sul Mezzogiorno, offrendo un appiglio ideologico al processo di desertificazione produttiva in atto.
Leogrande ci ricorda che è necessario uno sforzo a 360 gradi per risollevare quest’area del paese".

D. Possiamo collocare Leogrande accanto ai grandi meridionalisti: da Salvemini a Fortunato e Fiore, oggi che la Questione Meridionale è stata formattata da ogni agorà?
R. "Direi che Leogrande ha gettato le basi per una “quarta generazione” di meridionalisti.
La prima coincide in parte con gli autori che si ricordavano, in particolare con Salvemini, che nella prima metà del Novecento riflettono sulla condizione di subalternità del Mezzogiorno, individuandone le cause nel blocco di potere che domina la società italiana; di qui la preferenza per una soluzione politica, che abbia come sbocco una trasformazione radicale.
La seconda si afferma nel secondo dopoguerra: rispetto alla generazione precedente valorizza gli elementi strutturali del divario fra Nord e Sud, e individua nell’intervento pubblico la leva per imprimere un’accelerazione alla modernizzazione del Mezzogiorno, attraverso investimenti nelle infrastrutture e nell’industria.
La terza si affaccia negli anni ’80, ma diventa egemone verso lo scorcio del secolo: la sua parola d’ordine, in polemica con gli interventi “calati dall’alto” della fase precedente, è “autonomia”, cioè l’idea che il Sud possa riemergere attraverso le sue proprie forze, poggiando sulla mobilitazione della società civile locale, con una fiducia ottimistica nei confronti dei meccanismi di mercato. Nonostante il fallimento delle politiche che ha ispirato, questo approccio resta ancora oggi nettamente prevalente (si veda l’analisi di Daniele Petrosino e Onofrio Romano in “Buonanotte Mezzogiorno”).
Soprattutto negli ultimi anni, Leogrande introduce importanti elementi di critica nei confronti di questa visione. Le “macchie di leopardo” – cioè le esperienze virtuose su cui il meridionalismo più recente ha costruito la sua retorica – stanno scomparendo; la crisi sta trasformando il Mezzogiorno in un erogatore di servizi e di beni voluttuari per i consumatori del Nord d’Italia e d’Europa: una prospettiva che sta spaccando la società meridionale fra una massa di lavoratori ultra-precarizzati e a basso reddito e una ristretta elite di percettori di rendite.
Uno scenario da brividi, che richiede una rinnovata attenzione alla “questione meridionale”. In questo senso, gli scritti di Leogrande possono fornire un’utile traccia di lavoro".  

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