di FRANCESCO GRECO - Alienati, confusi e smarriti. Perduti nella modernità, incapaci di gestire le sue infinite, ispide contraddizioni. E’ la legge dantesca del contrappasso.
Abbiamo reciso il cordone ombelicale con Madre Terra e questo è il nostro amaro destino. La aggrediamo e deprediamo in tutti i modi, come se ne avessimo un’altra di ricambio, in nome di un modello di sviluppo suicida.
Ma forse siamo giunti a un punto di non ritorno. Le teorie sulla decrescita felice (Latouche), sul consumo folle di territorio, la fuoruscita dall’energia fossile e quant’altro: dovrebbero essere materia di dialettica quotidiana, e invece l’informazione è parziale e interessata.
“L’unico mondo che abbiamo”, di Wendell Berry, Piano B Edizioni, Prato 2018, pp. 160, euro 14,00, è un serio contributo a una discussione planetaria, trasversale a continenti, popoli, ideologie. Tutte variabili interdipendenti.
“Filosofo contadino”, “profeta dell’America rurale”, partendo dal cuore più profondo del Kentucky, in dieci piccoli saggi incalzanti, Berry sviluppa le sue tesi convincenti, fuori dalle mode correnti di certo ambientalismo radical-chic che guarda al dito e non alla luna.
E’ una critica severa alla globalizzazione senza etica, allo sviluppo di rapina prono alla legge del profitto senza se e senza ma. Berry non immagina Eden perduti né offre citazioni dalle “Bucoliche” virgiliane.
Ci ammonisce però sul ciglio del burrone dove siamo giunti, sul “the end” come opzione possibile, dietro l’angolo.
Sta a noi come cittadini presi uno a uno, decisori politici e come community nel suo complesso, cambiare stili di vita, smussare appetiti ed egoismi, adottare comportamenti virtuosi. Non pare che ci siano altre scelte.
Abbiamo reciso il cordone ombelicale con Madre Terra e questo è il nostro amaro destino. La aggrediamo e deprediamo in tutti i modi, come se ne avessimo un’altra di ricambio, in nome di un modello di sviluppo suicida.
Ma forse siamo giunti a un punto di non ritorno. Le teorie sulla decrescita felice (Latouche), sul consumo folle di territorio, la fuoruscita dall’energia fossile e quant’altro: dovrebbero essere materia di dialettica quotidiana, e invece l’informazione è parziale e interessata.
“L’unico mondo che abbiamo”, di Wendell Berry, Piano B Edizioni, Prato 2018, pp. 160, euro 14,00, è un serio contributo a una discussione planetaria, trasversale a continenti, popoli, ideologie. Tutte variabili interdipendenti.
“Filosofo contadino”, “profeta dell’America rurale”, partendo dal cuore più profondo del Kentucky, in dieci piccoli saggi incalzanti, Berry sviluppa le sue tesi convincenti, fuori dalle mode correnti di certo ambientalismo radical-chic che guarda al dito e non alla luna.
E’ una critica severa alla globalizzazione senza etica, allo sviluppo di rapina prono alla legge del profitto senza se e senza ma. Berry non immagina Eden perduti né offre citazioni dalle “Bucoliche” virgiliane.
Ci ammonisce però sul ciglio del burrone dove siamo giunti, sul “the end” come opzione possibile, dietro l’angolo.
Sta a noi come cittadini presi uno a uno, decisori politici e come community nel suo complesso, cambiare stili di vita, smussare appetiti ed egoismi, adottare comportamenti virtuosi. Non pare che ci siano altre scelte.