di FRANCESCO GRECO - E’ una tragedia essere troppo sensibili, percettivi, reattivi. In un mondo in cui trionfa la volgarità, la grossolanità, la maleducazione, la mancanza stile e di galateo (lo specchio fedele di tale deriva è la tv, pessima maestra a livello estetico e pedagogico), equivale alla condanna all’emarginazione degli altri, a una socialità di ripiego, una solitudine lacerante, spesso all’esclusione definitiva.
Su questa tematica assai complessa quanto poco conosciuta e perciò legittimata, si intrattiene Federica Bosco in “Mi dicevano che ero troppo sensibile”, Vallardi Editore, Milano 2018, pp, 235, euro 15,90.
E’ un libro curioso (cui è allegato un dotto vademecum utile a chi dovesse soffrire di questa patologia, HSP, Highly Sensitive Person, più diffusa di quanto non si creda stando alle statistiche), a metà strada tra l’autobiografia, dipanata in senso proustiano, sul filo della memoria, e i paradigmi scientifici e analitici che studiano il fenomeno dell’ipersensibilità, stranamente sinora poco analizzato.
Si parte dall’assunto freudiano che l’infanzia decida di noi, oltre al contesto sociale e famigliare, l’educazione, le contaminazioni che riceviamo nei primi anni di vita.
Ma, come insegna l’antica saggezza cinese, si può trasformare una criticità, una diminuzione (“mi sentivo diversa e sbagliata”), l’esigua autostima in un’opportunità, reagendo senza scompostezza, con razionalità (usando l’emisfero sinistro del cervello), e magari senza svenarsi andando per psicoterapeuti uno vale l’altro.
Il libro si può leggere anche adottando il format del romanzo, ma anche il codice antropologico per indagare l’ultimo mezzo secolo, a cavallo fra II e III Millennio.
Federica Bosco ha il dono della solarità dello stile, della prosa emozionale, che mette in sintonia cuore e mente. In tempi di barocchismi autoreferenziali e di solipsismo non è cosa da poco. Scrivere dovrebbe essere anche un servizio.