Papillon: la recensione

di FREDERIC PASCALI - Esistono storie che sono naturalmente portatrici di un fascino e di una visione fuori dal comune che le rendono costantemente vicine ai confini di quello che definiamo impossibile. Una di esse è senza dubbio quella autobiografica raccontata da Henri Charrière, per tutti “Papillon”, e pubblicata nel 1969. Un bestseller che il cinema ha già fatto suo con una pellicola del 1973 il cui attuale remake, diretto da Michael Noer, stenta non poco a rinverdirne gli allori.

Papillon nella Parigi degli anni ’30 è dedito alla bella vita grazie ai furti di preziosi che mette costantemente a frutto su commissione. Ma dopo aver passato una notte con la sua amante, una giovane ballerina di nome Nenette, viene arrestato dalla polizia con l’accusa di aver assassinato un uomo. È innocente ma è stato incastrato dal suo capo e le prove schiaccianti contro di lui lo portano alla condanna ai lavori forzati nella lontana “isola del Diavolo”, nella Guayana francese. Nel viaggio conosce Louis Dega, un milionario divenuto tale imbrogliando e falsificando titoli finanziari. È l’inizio di quella che diventerà una grande amicizia e di un racconto che darà vita alla sua leggenda.

Michael Noer gira con il piglio hollywoodiano e la fotografia patinata e ordinata di Hagen Bogdanski lasciando molti rimpianti per quello che avrebbe potuto essere e non è stato. Sin dalle prime battute appare chiaro che le scelte stilistiche e di regia condurranno sulla strada dell’avventura “mordi e fuggi”, nella quale le attenzioni maggiori si materializzano sulle prove fisiche da affrontare e sul piglio un po’ “spaghetti western” di cui sembra essere afflitto il protagonista. Un effetto che assorbe totalmente i 133 minuti della pellicola snaturando l’aspetto umano preponderante nel precedente lavoro diretto da Franklin Schaffner. Tuttavia, nonostante le scelte di sceneggiatura, di Aaron Guzikowski, Charlie Human, “Papillon”, e Rami Malek, “Louis Dega”, forniscono una discreta prova recitativa e in parte rendono meno gravoso l’incombere del peso dei loro predecessori, Steve Mc Queen e Dustin Hoffman.