di FRANCESCO GRECO - Un autista di autobus fuori di testa, “ci sono uomini così malvagi… in una giornata bisestile”, sequestra due donne affette dal maledamore, e le porta in un posto primitivo, selvaggio, un’isola ignota anche a Google Maps, dove esse ritrovano la loro animalità, l’io più recondito e primitivo, i suoi infiniti labirinti.
Parte così, con un curioso espediente letterario (ma potrebbe essere anche cinematografico) ben congegnato, e anche riuscito, un viaggio al confine della notte, e di se stesse, di Virginia e Viola (“donne nuove, animate, reattive”), occasionali compagne di ventura, in cui – grazie anche alla c0mplicità tutta femminile - il vissuto delle due “virago in grado di nono cedere alla paura, alla tenerezza alla nostalgia” è tirato fuori, in superficie, come in una seduta psicanalitica, impietosa, spietata, dopo che ogni sovrastruttura culturale è stata relativizzata e rimossa e il flusso di memoria scorre implacabile, impudico, privo di alibi e freni inibitori. Memoria in senso proustiano (ma il lettore troverà anche altre chiavi estetico-letterarie, anche carsiche).
E’ il mainstream, il sostrato interno che regge l’architettura di “Nemesi d’Aprile”, Robin Edizioni, Torino 2018, pp. 190, euro 12,00, romanzo scritto a quattro mani, via email, dalla triestina Serena Castro Stera (nata a St. Charles, USA) e la calabrese (Acri, Cosenza) Angela Aurora Luzzi.
La password più evidente è la spietatezza da cupio dissolvi, un maledamore trasfigurato in un lutto difficile, forse impossibile, da elaborare, fallimenti (il matrimonio di Virginia con PIemme), ferite che non si rimarginano più, perché ogni finzione borghese è svaporata, ogni velo lacerato e il dirsi le cose taciute agli altri e anche a se stesse, diviene una sorta di (auto)terapia che lenisce il dolore.
Sospesa fra Adriatico e Mediterraneo, con i rispettivi topoi culturali, intrecciati e contaminati (pregni di cultura classicheggiante e dei suoi miti più fascinosi), la prosa ne risulta assai sapida e densa come mosto, con una sua luce interna livida e screziata (“che mi fa ammattire”), una possente forza escatologica, maieutica, che cattura la nostra attenzione sino all’ultima riga.
Giunta a un punto morto, in una palude in cui l’ha spinta l’eccesso di marketing (e di marchette), in cui si assecondano ruffianescamente per vendergli qualcosa di effimero, la narrativa italiana torna alle origini, e cioè ai fertili sperimentalismi degli anni Sessanta, si inventa una nuova koinè, rimodula i suoi canoni etici-estetici: rinnovarsi per non perire.
Come se volesse rigenerarsi nell’etimo, ridando senso alla parola, ritrovare la freschezza dei suoi archetipi fondanti, le ragioni del suo esistere, se vogliamo della mission.
E che siano due donne (la Castro Stera si sta guadagnando una sua immagine nel panorama delle patrie lettere) a farlo (avallate da un piccolo editore, i migliori a scannerizzare il nuovo e trovarci delle perle), mettendo sulla pagina senza astuzie dialettiche né accademie di sorta (da scuole di scrittura creativa) i loro furori uterini, incuriosisce e sorprende, ma non più di tanto, essendo la donna intorno a noi oggi più sincera dell’uomo, disposta a mettersi in gioco, e a destabilizzare lo status quo che ci ha ridotti a ectoplasmi clonati, fra terrorismi e fughe dalle responsabilità.